In Toscana, nella terra dove le Misericordie insegnano da secoli a prendersi cura del dolore altrui, è avvenuto il primo suicidio assistito regolato da una legge regionale. Un uomo di 64 anni, Daniele Pieroni, scrittore e musicista, ha scelto di morire. E l’ha fatto con un gesto che viene raccontato come «sereno», circondato da medici, badanti e familiari, descritto in modo «gentile». Come se la vita fosse una commedia che si può concludere a soggetto tra i sorrisi premurosi del personale sanitario. Pieroni era affetto dal morbo di Parkinson, con una disfagia grave che lo costringeva da anni a vivere collegato a una sonda Peg per 21 ore al giorno. Ha contattato l’associazione Luca Coscioni, ha fatto richiesta all’Asl Toscana Sud Est, e il 22 aprile ha ottenuto risposta positiva. Il 17 maggio ha azionato da solo una pompa a doppia infusione. Alle 16 e 50 il suo cuore ha smesso di battere.
Tutto, secondo i testimoni, si è svolto con «lucidità» e «serenità» grazie a questa collaborazione tra pubblico e privato. Il presidente del consiglio regionale, Antonio Mazzeo, ha parlato di «una conquista di civiltà». Civiltà è una parola che un tempo indicava il rispetto per la vita. Ora, sempre più spesso, viene evocata quando si decide di spegnerla.Non toccherà a noi discutere l’omissione di responsabilità del Parlamento, che da anni ignora le sollecitazioni della Corte Costituzionale su questo tema. Ma non si dica che la Consulta ha legalizzato il suicidio assistito con la sentenza 242 del 2019. È falso. I giudici hanno indicato criteri rigorosissimi: il paziente deve trovarsi in una condizione di sofferenza fisica o psichica costante, insopportabile e intollerabile, deve trovarsi di fronte un vero e proprio accanimento terapeutico. Una decisione da prendere caso per caso, con il vaglio di una struttura pubblica, non un automatismo da inserire nel prontuario dell’Asl accanto alla gastroscopia o un’operazione d’appendicite.
Qui, invece, qualcosa è stato estremizzato. La Regione Toscana si è dotata a febbraio di una legge autonoma. Il Parlamento tace, le Regioni legiferano, o tentano di legiferare, come aveva fatto il Veneto. L’atto estremo diventa procedura, regolamento, possibilità.
C’erano alternative per Daniele? Gli erano state offerte cure palliative, quei trattamenti che non guariscono, ma alleviano o cancellano il dolore? La Regione si è preoccupata di rendere disponibili i farmaci del sollievo, o solo macchinari e veleni? Che cosa fa la Toscana per alleviare la fatica dei familiari e dei caregiver, anche economicamente? “I care” era il motto di don Milani, i politici toscani lo citano solo nelle manifestazioni o cercano di rendere la sua eredità concreta? Perché se si forniscono soltanto gli strumenti per interrompere il respiro, e si omette di offrire ciò che potrebbe lenire la sofferenza, si rischia di non dare una scelta, ma una spinta. La vita umana, che è incommensurabile, diventa merce a poco prezzo. Accade già in Belgio, dove l’eutanasia riguarda anche bambini e ragazzi, magari un po’ depressi.
Ora il Senato annuncia che un testo arriverà in aula il 17 luglio. La maggioranza vuole finalmente normare una materia su cui la Corte ha chiesto chiarezza. E tutti, a parole, dichiarano di voler rafforzare le cure palliative. Lo chiede anche monsignor Vincenzo Paglia, presidente emerito dell’Accademia per la Vita che da anni si batte per una maggiore diffusione in Italia di questi trattamenti: non è la morte a essere una terapia, ma la pietà – quella vera – che non scarta i fragili, non li lascia soli, non li accompagna verso il nulla.
La morte di Daniele ci interroga. Non sulla sua scelta, che va rispettata. Ma sulla nostra. Se davvero, davanti alla sofferenza, abbiamo fatto tutto il possibile per curare, per accompagnare, per tenere accesa una speranza. Oppure se, come società, ci stiamo rassegnando a un’idea funzionale ma disumana: che ciò che è fragile va tolto di mezzo, con gentilezza. Lenire il dolore, trattarlo, sopprimerlo il più possibile, è un dovere umano che non riguarda solo i medici, i sanitari e i familiari. Ma non è troncando una vita come le Parche che si risolve il problema, come se esistesse una “morte terapeutica”, da inserire nei trattamenti sanitari. Una morte ispirata da un’ideologia libertaria che finisce per fare comodo a una società liberista e malata che considera gli anziani, i malati, i fragili - la pietra di scarto insomma - semplicemente una zavorra da scaricare.
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