Manca la certezza di una pena “Civile”

C’è un che di truce in alcuni commenti sugli ultimi, gravissimi fatti di cronaca. Una retorica tra lo spaccone e il cinico che sembra aver ormai monopolizzato il discorso pubblico.

E che propone ricette apparentemente lineari e semplici come soluzioni a problemi che ciclicamente deflagrano in tragedie e che richiederebbero un approccio ben più complesso, mediato innanzitutto dagli strumenti della legalità. La summa di questo atteggiamento è senz’altro il Decreto sicurezza recentemente approvato dalla Camera con il voto di fiducia (tocca ora al Senato).

Un dispositivo che introduce 14 nuovi reati perseguibili penalmente. Tra questi vale la pena ricordare il reato di resistenza passiva in carcere, che introduce l’equivalenza tra la rivolta e la semplice disobbedienza, e il reato di blocco stradale anche per mezzo del proprio corpo, quindi senza barricate o apposizione di ostacoli. Facile intuire che il legislatore, messo di fronte agli episodi più “caldi” della cronaca, abbia cercato di escogitare delle nuove misure punitive in una visione di causa-effetto che poco ha a che spartire con la supposta efficacia delle stesse, molto invece con l’immediato consenso di una platea sempre più spinta all’esasperazione da un circo mediatico che si nutre di tragedie. Come ha acutamente osservato Marcello Sorgi su La Stampa, riguardo alla manifestazione di sabato contro il decreto sicurezza, «per ognuno di quelli che marciavano ce n’erano due o tre che silenziosamente nelle loro case approvano le nuove norme».

Se quindi il carcere, e più in generale l’esecuzione della pena, viene scambiato per una palestra di competizioni muscolari tra attori politici, appare ancora più sconfortante la solitudine che traspare dalle parole della presidente del Tribunale di sorveglianza di Brescia, Monica Cali. La prima linea di chi si prende in carico i condannati in tutta la Lombardia orientale è fatta da sette giudici, per un territorio di oltre tre milioni di abitanti, 3.679 misure alternative e 1.766 detenuti, con un organico rimasto drasticamente inadeguato anche sotto il profilo amministrativo: 27 addetti, 11 dei quali distaccati in altri uffici.La Sorveglianza è sempre stata la cenerentola degli uffici giudiziari. Ci si ricorda che esiste solo quando fallisce (tragicamente esemplare il caso di Milano, dove un detenuto in permesso di lavoro ha ucciso una collega e poi si è suicidato lanciandosi dal Duomo). Come ammette la presidente, questi episodi hanno un effetto devastante sull’opinione pubblica. Ma chi è chiamato a legiferare non può fermarsi alla superficie. Ha il dovere di analizzare i fatti prima di giudicarli: le misure alternative che vengono revocate per commissione del reato sono una su cento. Di contro, per chi intraprende percorsi virtuosi durante la detenzione, la recidiva si abbatte fino all’80%.

Il dilemma tra consenso immediato e scelta razionale si gioca tutto su questa dicotomia. Si coglie qualche segnale controcorrente. Così si è espresso il presidente del Senato Ignazio La Russa, che nei giorni scorsi ha incontrato Roberto Giachetti e Rita Bernardini, che su fronti diversi, sono impegnati per promuovere una misura temporanea che aiuti ad alleggerire la pressione sulle carceri: «Sono convinto che accanto alla certezza della pena vi debba essere la certezza che la detenzione sia scontata in condizione di assoluta civiltà. E soprattutto, sono convinto si debba spezzare quella catena della recidiva che fa pensare a chi viene detenuto che non vi siano alternative». Ma, dice La Russa, «a che servono sale cinema o corsi di musica se poi otto persone devono condividere quattro metri quadrati?». Forse una crepa si è aperta.

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