Provocazione per scuotere i giovani dal torpore

In prossimità del referendum dell’8-9 Giugno, che coincide con la fine dell’anno scolastico, ci tenta l’idea di aprire un confronto sull’opportunità di innalzare a 21 anni l’accesso al voto. Si tratta certamente di una provocazione ma, in verità, non sarebbe peregrina l’ipotesi di scindere il raggiungimento della maggiore età, confermando i 18 anni, dal conseguimento dell’elettorato attivo e passivo.

L’indifferenza dei giovani verso la politica, unitamente alla loro fragilità culturale, ci impongono una riflessione su quanto sta accadendo nel mondo occidentale nel quale esiste, da tempo, uno scollamento generazionale che non possiamo più fingere di ignorare. Il dialogo tra genitori e figli risulta sempre più complesso e, nel contempo, il rapporto dialettico tra insegnanti e alunni si è pressoché liquefatto. Giovani e adulti sembrano abitare due mondi diversi e strutturalmente incompatibili. L’universo simbolico dei ragazzi continua ad alimentarsi di modelli di comportamento che risultano, spesso, incomprensibili agli adulti sui quali ricade la responsabilità di una società che ha smarrito le proprie coordinate. L’avvento delle nuove tecnologie ha determinato una mutazione antropologica che sarebbe, tuttavia, semplicistico attribuire solo ai social media. In verità, sarebbe opportuno tornare indietro di qualche decennio e porre mente al ruolo devastante delle tv commerciali davanti alle quali si sono formati i genitori degli attuali adolescenti. Si tratta di un dettaglio che troppo spesso si tende a trascurare. Eppure basterebbe ricordare le innumerevoli inchieste dell’epoca sulla dipendenza dei ragazzi dal piccolo schermo, sul numero abnorme di televisori esistenti nelle case, sulla presenza debordante di programmi di infima caratura che, catturando le menti degli ignari spettatori, in modo impercettibile cominciavano a modificare la psicologia collettiva di un popolo destinato a non essere più lo stesso.

Quando Karl Popper sentenziò che la televisione era “cattiva maestra”, furono in pochi a capire che il nostro sistema educativo era sotto attacco, che era nata una competizione culturale tra Tv e scuola che rischiava di aprire una faglia pericolosa nel rapporto tra generazioni. Il sistema scolastico italiano non fece nulla per contrastare l’attacco poderoso sferrato dal messaggio televisivo. C’era in atto una guerra non dichiarata ma nessuno mosse un dito per arginare la lenta deriva educativa che iniziava a cambiare i connotati dei nostri ragazzi, improvvidamente lasciati soli, per ore, davanti alla tv proprio come accade oggi con il cellulare: ieri il telecomando, oggi lo smartphone.

Sono decenni che genitori e professori lamentano lo scarso impegno scolastico dei ragazzi, la loro abulia, la loro irascibilità, la crescente aggressività. Da tempo immemorabile sentiamo gli insegnanti intonare stucchevoli geremiadi sui propri alunni: “non leggono”, “non si interessano a nulla”, “dormono in classe”. “sono apatici”. Malgrado questo, la scuola continua a non interrogarsi sulla propria sconsolante inadeguatezza, sulla sua incapacità di innescare nei giovani un minimo slancio, sulla sua sostanziale inutilità sotto il profilo della crescita culturale del cittadino.

Si abbia, una buona volta, il coraggio di dire apertamente che il sistema scolastico italiano è tecnicamente fallito. Lo dimostra l’ignoranza dei nostri giovani, certo, ma lo certifica in modo ancora più drammatico la pochezza di un ceto politico e di una classe dirigente a cui non interessano le sorti della nostra scuola. Tornando alla provocazione iniziale, crediamo sia giunto il momento di aprire un grande confronto con i ragazzi per cercare di scuoterli dal loro torpore, per sensibilizzarli alla partecipazione e per ricucire un rapporto con gli adulti, da cui probabilmente si sentono traditi. Sollevare la questione dell’innalzamento del voto a 21 anni potrebbe servire a costringere i giovani a prendere posizione, a rivendicare il proprio ruolo e a rivoltarsi contro una scuola noiosa, anacronistica e burocratizzata che ci ricorda una celebre battuta di Longanesi: “Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola”.

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