DE FElice e il fascismo
non fu revisionista

A DeFelice venne, da taluni, attribuita l’etichetta di «storico revisionista» con un evidente intento critico e riduttivo della sua obiettività e serietà di studioso e con l’implicita accusa di aver fatto o suggerito, con la sua opera e secondo i suoi intendimenti metodologici, un «uso politico della storia». Che si trattasse di accuse infondate, non verificate né verificabili, è superfluo sottolinearlo. Anche perché, se si volesse rintracciare un esempio paradigmatico di «uso politico della storia», questo andrebbe cercato proprio nel dibattito sul «revisionismo storiografico» e nell’utilizzazione acritica del termine «revisionismo»: un uso questo, ormai dilagato senza controllo critico, tanto sui mezzi di comunicazione di massa quanto nel linguaggio della politica. [...]

Nel dibattito che ebbe con Bobbio e che è stato richiamato nelle pagine precedenti, De Felice sintetizzò in maniera efficace il fatto che l’attribuzione di una valenza spregiativa alla parola «revisionismo » e ai suoi derivati fosse dovuta al comunismo: «Non possiamo non essere “revisionisti”, e l’aggettivo “revisionista” non deve suonare spregiativo. Come è potuto succedere allora che sia stato trasformato in un’offesa? All’origine del suo uso negativo c’è il comunismo. Sono le polemiche fra le varie correnti del pensiero marxista che l’hanno fatto diventare un’offesa mortale. Chiunque metteva in discussione la linea vincente del partito, chiunque pretendeva di discutere i fondamenti della teoria marxista diventava automaticamente un pericolo politico. Per questo “revisionismo” è diventato un termine spregiativo. Chi non ricorda il “revisionista” Bernstein o il “rinnegato” Kautsky? Il momento cruciale fu costituito dalla vittoria dei bolscevichi sui menscevichi, che portò con sé la critica a tutti i socialismi che non riconoscevano la supremazia ideologica del partito di Lenin. Con Stalin il “revisionismo” diventa addirittura un crimine contro lo stato guida, il comunismo in un paese solo, l’internazionalismo proletario».

Il richiamo alla genesi e alla prima utilizzazione del termine «revisionismo» fa comprendere perché la qualifica di storico revisionista sia divenuta di fatto un insulto e sia stata caricata di una valenza negativa tanto forte da portare alla emarginazione dalla comunità storiografica di chi, a torto o a ragione, tale qualifica si ritrova sulla pelle. Il cosiddetto storico revisionista sarebbe colui che, obbedendo a una ideologia, imposterebbe tutto il proprio lavoro di ricerca sulla intenzione - dichiarata o non dichiarata - di voler riscrivere la storia stravolgendo o capovolgendo i risultati già acquisiti, tanto sotto il profilo dell’accertamento dei fatti quanto sotto il profilo della interpretazione degli stessi. Questo discorso – che è di per sé ideologico in quanto promana dalla volontà di preservare la purezza di una “vulgata” storiografica, cioè di una interpretazione canonica o ufficiale dei fatti – ha avuto fortuna in una Italia dov’era egemone la cultura marxista supportata da quella radical-azionista caratterizzata da intolleranza e chiusura nei confronti di qualsiasi discorso in grado di porre in discussione certezze ritenute acquisite in una “vulgata” storiografica. Quanto accadde a De Felice, già a partire dalla seconda metà degli anni ’60, da quando cioè cominciò a occuparsi di Mussolini e del fascismo, è indicativo. La sua figura venne demonizzata fino al limite del linciaggio morale e della richiesta di un suo allontanamento dalla cattedra; e poco importa che oggi gran parte delle sue tesi – a cominciare dalla famosa distinzione tra “fascismo regime” e “fascismo movimento” e dalla individuazione del ruolo dei ceti medi emergenti per finire con il riconoscimento della esistenza di un consenso diffuso e con la precisazione delle differenze tra il fascismo e il nazionalsocialismo – siano, ormai, divenute patrimonio acquisito della più avvertita storiografia internazionale; e poco importa, ancora, che alcuni di coloro che, all’epoca, furono tra gli «aggressori » negano l’aggressione e richiamano l’attenzione sulla «pericolosità» delle sue tesi che avrebbero avuto una implicita valenza politica portando non solo alla riabilitazione e rivalutazione del fascismo ma anche allo «sdoganamento» culturale e politico dell’estrema destra e alla sua legittimazione.

L’arruolamento di De Felice nelle schiere revisioniste fu deciso d’autorità, senza neppure tenere presente il fatto che egli, fino alla scomparsa, rifiutò di definirsi o autodefinirsi «revisionista». Sosteneva - lo fece proprio nel rammentato dibattito con Bobbio - che «qualsiasi storico è un revisionista», come lo fu, per esempio un Tito Livio rispetto a un Polibio, ma nella misura in cui «lo storico comincia il suo lavoro dal punto in cui sono arrivati i suoi predecessori, per completare e modificare, aggiungere e cambiare, chiarire e approfondire». Denunciò la confusione mistificatrice tra i cosiddetti «negazionisti» cioè tra «i sostenitori dell’irrilevanza dell’Olocausto che arrivano, come Robert Faurisson, a mettere in dubbio l’esistenza stessa dei campi di sterminio tedeschi» e quegli studiosi, pur di formazione diversa, come Ernst Nolte e Andreas Hillgruber in Germania o François Furet in Francia che vengono sì qualificati «revisionisti» e ma che sono da considerare storici a tutti gli effetti. Se riconosceva, in particolare, l’esistenza di un «revisionismo » tedesco, e - si può aggiungere - anche francese, inteso come «complesso di reinterpretazioni della storia ideologica del Novecento», De Felice, pensando a se stesso e alla sua “scuola”, negava che si potesse parlare di un “revisionismo” italiano per lo studio del fascismo: «La ricostruzione del fascismo non ha niente di revisionistico. Per lungo tempo ci si è basati su un numero limitato di fonti e di testimonianze. Man mano che si è andati avanti sono venuti alla luce fatti nuovi e nuove analisi si sono aggiunte a quelle precedenti. Si è trattato di riempire buchi nello studio dei fatti [...]».

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