Un diverso che seppe conciliare due anime

Il Mago, come lo chiamavano i suoi figli, è di ritorno. Nel doppio anniversario, centocinquantesimo della nascita (1875) e settantesimo della morte (1955), conversiamo attorno a Thomas Mann con Marino Freschi, germanista e professore emerito di Letteratura tedesca, profondo conoscitore dell’opera del premio Nobel per la letteratura (1929) che nasceva nella baltica Lubecca, Germania settentrionale, un secolo e mezzo fa.

Mann fuggì negli Usa dopo
aver detto che non esistono due Germanie, una buona e una nazista, bensì una sola

Quale fu il suo rapporto con le proprie origini borghesi?

Complesso. Tematizzava sempre questo rapporto in modo problematico. Ne “I Buddenbrook”, la prima e ancora oggi la più popolare opera di Mann, questo trova una rappresentazione stupenda. Mann non si distaccherà mai dall’ethos borghese, perfino nella prassi quotidiana: mattina, scrittura nel suo studio fino a mezzogiorno, pomeriggio lettura e musica, la sera teatro o cene in società.

La monumentale biografia di Hermann Kurzke “Thomas Mann. La vita come opera d’arte” (Carocci Ed.) mette in rilievo l’apparente contrasto tra la grandezza del lavoro del romanziere tedesco e le contraddizioni della sua personalità a cominciare dalla rimossa omosessualità.

Mann ha bruciato i suoi diari giovanili, lui che era l’archivista di se stesso. Padre di sei figli, è stato capace di tradurre la pulsione omosessuale, cui ha sempre resistito, in forza produttiva di scrittura il cui risultato è “La morte a Venezia”, il suo più famoso racconto pubblicato nel 1913. Accanto a questa modalità omosessuale sublimata lo scrittore fu sempre un diverso - e questa diversità lo accompagnò per tutta la vita - anche per un altro motivo: la madre di Mann era creola e dopo la morte del marito commerciante, sciolse la società di famiglia di Lubecca dove vivevano e si trasferì con i figli nella più meridionale Monaco di Baviera. Tra le novelle giovanili c’è “Tonio Kroger”, fortemente autobiografico: qui il nome del protagonista è Tonio che per i tedeschi baltici è un nome quasi esotico, il contrario del cognome Kroger che ispira rispetto e tedesca severità. Mann riuniva queste due anime, calda e fredda, spumeggiante e intransigente.

Mann fugge dalla Germania nazista verso gli Stati Uniti. Molti anni prima aveva tuttavia nutrito simpatie nazionaliste e reazionarie.

Io che oggi sono anziano sono ancora alle prese con questo dramma tedesco, quello della tragedia del nazismo. Mann pubblica “Considerazioni di un impolitico” in un anno tragico, il 1918. Sono più di seicento pagine, in cui lo scrittore prende le difese, esaltandone la superiorità, della Kultur tedesca, reazionaria, conservatrice, tradizionalista e romantica, contro la civilizzazione ovvero l’illuminismo e le democrazie inglese e francese, e con attacchi rivolti anche a Mazzini e al carduccianesimo. Poi, dopo il primo conflitto mondiale, si troverà nella catastrofe della Germania bellica e postbellica. Questo è il momento della sua svolta, quando emergerà la violenza nazista proprio a Monaco, dove viveva, la città del movimento hitleriano, dove cominciavano i primi gesti di ferocia e brutalità contro sindacati ed esponenti della sinistra. E dove Mann non vorrà più mettere piede. Lo scrittore dice in un famoso discorso che non esiste una Germania buona e un’altra con i nazisti cattivi ma una Germania sola dove i cattivi sono tedeschi deviati. Un discorso davvero coraggioso per dire che c’è un’unità spirituale della Germania cui egli non intende rinunciare. Tuttavia ne presenterà gli aspetti deteriori nel suo ultimo grandissimo romanzo “Doktor Faustus”, iniziato nel 1943 durante il suo esilio negli Usa e pubblicato nel 1947 in cui traccia le radici storico-culturali e storico- intellettuali del nazionalsocialismo. Adrian Leverkuhn è l’artista che vende l’anima al diavolo per il successo. È la metafora di una Germania che vende la sua per desiderio di potenza e dominio, quel fiume carsico dell’irrazionalismo tragico tedesco di Nietzsche e Wagner finisce nell’orrore e nella barbarie della Germania nazista.

Thomas Mann negli Stati Uniti cercherà delle risposte alla tragedia del suo paese e trasmetterà ben cinquantacinque discorsi radiofonici rivolti agli “ascoltatori tedeschi”. Ma come visse il suo soggiorno da esule negli Stati Uniti e quale fu il suo sguardo sull’America?

Fu molto contento di diventare cittadino americano nel 1942. Sostenne un esame per il quale racconta che non si preparò bene, il risultato non fu brillante come da lui ci si sarebbe aspettati. Simpaticamente aggiunse che la severa funzionaria che lo interrogava alla fine estrasse una copia dei “Buddenbrook” per farglielo autografare! Poi nell’ultimo libro della Tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, “Giuseppe il Nutritore”, sintetizzando, si può leggere nella figura del Faraone buono il cui braccio destro, Giuseppe, era un ebreo e venne accettato, quella di Roosevelt, il presidente degli Usa, sorta di sovrano illuminato, “faraone democratico” e antagonista di Hitler.

Poi però negli Stati Uniti arrivarono la Guerra fredda e il maccartismo.

Mann se ne tornò in Europa perché non voleva più stare in America dopo aver visto gli interrogatori agli artisti e la caccia alle streghe ai comunisti. In più i figli Erika e Klaus erano sottoposti a vigilanza stretta. Dunque rientrò in Europa, in Svizzera, con un gesto molto manniano, senza rimpatriare nella sua Germania, lui che in America aveva detto “Là dove sono io là è la cultura tedesca“ si recò in Germania per tre soli eventi, il centenario goethiano del 1949 e quello di Schiller nel 1955, poche settimane prima della morte, e poi per un breve viaggio a Lubecca dove ebbe la cittadinanza onoraria e dove rivide la facciata rimasta in piedi della casa dei Buddenbrook ovvero dei Mann.

A chi volesse avvicinarsi oggi all’opera di Mann lei consiglierebbe di cominciare da quale libro?

Da “La morte a Venezia” perché è di una bellezza struggente e intramontabile. È’ una vita che lo rileggo traendone sempre piacere intellettuale. In questo sono allievo del critico letterario Cesare Cases che considerava le novelle di Mann, soprattutto le prime, le sue più belle opere poiché vi ritrovava tutti i semi che poi avrebbero prodotto “La Montagna incantata” e i suoi altri grandi romanzi.

È vero che Mann, uno dei più grandi romanzieri del Novecento, era un pessimo scolaro liceale?

Sì, è il vulnus che aveva dentro, una sua fragilità. Nonostante questo era di una famiglia altoborghese, di vasta cultura, in casa si parlava un tedesco raffinatissimo, poi per tutta la vita ha studiato, ogni pomeriggio.

Quale fu il suo rapporto con l’Italia?

Di odio e amore, l’Italia fu la culla della sua opera. Abitò due anni a Roma, in via di Torre Argentina 34 e lì giovanissimo cominciò la scrittura de “I Buddenbrook”. Però mentre Goethe si era quasi romanizzato Mann rimase critico verso l’Italia, in Considerazioni di un impolitico ci sono pagine di odiosità verso certi italiani. Poi c’è “Morte a Venezia” e l’atmosfera di cupezza. E c’è poi un’altra novella amara ambientata sul litorale toscano, dove soggiornò con moglie e figli, trovando l’ostilità del fascismo verso tutto ciò che era straniero: “Mario e il Mago”, mago che è un po’ un ciarlatano, un venditore di illusioni, e sembra incarnare il potere soggiogante di leader autoritari sulle masse.

Di “Mario e il Mago” fece una riduzione anche Visconti...

La novella fu uno dei rarissimi contributi di Luchino Visconti al balletto. Con l’aiuto dello stesso Mann, il regista la adattò a sceneggiatura teatrale, con coreografie di Léonide Massine, mimo, recitativi e canto. La prima rappresentazione al Teatro alla Scala andò in scena nel febbraio 1956.

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