Nell’estate del 1990 l’allora Telemontecarlo aveva lanciato un programma per seguire i Mondiali di calcio - quelli delle notti magiche - che si chiamava “Galagoal” e che era stato affidato alla conduzione di una bellissima ragazza sconosciuta al grande pubblico.
La giovane in questione si chiamava Alba Parietti e al di là delle indiscutibili doti estetiche, esaltate dal famoso sgabello che ne ha fatto per qualche anno una piccola icona del mainstream televisivo, aveva sorpreso piacevolmente un po’ tutti, pubblico e critica, per la freschezza che aveva portato in un mondo di seriosi, tronfi e bollitissimi parrucconi come quello del calcio, da tempo immemore governato da schiere di tromboni che avevano passato la vita a scimmiottare Brera con esiti penosi (anche se, in fondo, a essere maliziosi, anche Brera aveva passato la vita a scimmiottare Gadda).
Quella trasmissione era diventata il trampolino di lancio per la Parietti, che si era poi buttata, oltre alla televisione, anche nella musica, nel cinema e negli amori da copertina, come da canovaccio della perfetta showgirl. E il tutto in tempi rapidissimi. E così, inevitabilmente, aveva commesso l’errore che fanno tutti quelli che arrivano molto in alto molto velocemente e senza grandi meriti. Aveva iniziato a prendersi sul serio. A parlare di politica, a concionare sugli imperituri valori della Resistenza, a riflettere sulla caducità dell’essere, a discettare sui giovani del giorno d’oggi che non sono più quelli di una volta, signora mia, e su quanto è dura la carriera delle belle donne di sinistra che vogliono essere valutate non per le gambe, ma per la professionalità e bla bla bla. Insomma, è bastato un attimo per diventare una macchietta.
Lo stesso identico caso, un vero e proprio caso di scuola, e non bisogna stupirsi per la totale diversità del contesto e del soggetto, che, anzi, nella sua drammaticità lo rende ancor più emblematico, sta succedendo in queste settimane a un’altra donna particolarmente nota alle platee televisive: Francesca Albanese. Ora, davvero, abbiate pietà, qui non interessa quello che la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati ha detto, fatto e combinato in questi mesi di esposizione mediatica continua, assoluta e strabordante. E non è importante chi ne pensi bene e chi ne pensi male ed è del tutto irrilevante cosa ne pensi chi scrive questo pezzo (che la considera una cialtrona di livello mondiale, giusto per dare un giudizio in chiaroscuro). E non è interessante infierire sulla sceneggiata pagliaccesca, da avanspettacolo al Teatro di Reggio Emilia e neppure sulle dichiarazioni fascistoidi, mafiosette e intimidatorie dopo l’assalto alla redazione de “La Stampa” da parte dei centri sociali Pro Pal (che oltre a essere dei criminali hanno pure dimostrato di essere degli imbecilli: quello è uno dei giornali più filopalestinesi del panorama editoriale italiano). E neppure sulle reiterate venature antisemite di mille suoi interventi. E neppure sulla ridicola, grottesca, patetica marcia indietro che tante amministrazioni di centrosinistra stanno facendo per revocare cittadinanze onorarie consegnata in massa, da bravi pecoroni conformisti (basta dire che tutti gli israeliani sono brutti e cattivi e che è tutta colpa loro e che sono peggio delle SS e che il 7 ottobre è stato un atto di resistenza e il popolo bue applaude).
No, il punto vero è la trasformazione antropologica, prognatica, lombrosiana che il soggetto Albanese - in questo per nulla differente da qualsiasi altro essere umano, da Alba Parietti a Pietro Taricone a Irene Pivetti a Giuseppe Conte e mille altri miracolati della storia - subisce nel momento in cui viene travolto da qualcosa più grande di lui. Qualcosa di più grande di noi. Quello che accade a uno che vince dieci milioni alla lotteria di Capodanno. O ne vieni schiacciato, vai in depressione e l’improvvisa fortuna ti distrugge la vita (avete in mente la fila di vincitori di “X Factor” poi subito dimenticati che sono finiti sul lettino dello psicanalista?). Oppure ci credi. Ti consideri importante. Ti ritieni indispensabile. Ti definisci la cannottiglia della Flotilla. Inizi a parlare in terza persona, come Maradona ai tempi d’oro. Pensi. Ponzi. Cogiti. Ti gratti la pera. Dai la linea. Separi il grano dal loglio. Imponi le mani. Guarisci gli scrofolosi come Re Luigi di Francia. Dici la tua su tutto. Fai il mattatore nei mejo talk show del bigoncio. Le canti chiare a Golda Meir, alla Thatcher e anche alla Regina Elisabetta. Finisci inesorabilmente preda di una egolatria egocentrica egoriferita che piace tanto ai giornalonzoli e ai loro giornalistonzoli che tengono la briglia lunghissima al tuo perenne show mitomaniacale: l’Albanese che riscrive la storia del Medio Oriente, l’Albanese che secondo lei Churchill non capiva una mazza, l’Albanese che quelli di Hamas sono severi ma giusti, l’Albanese che scomunica il Papa perché qui ci vuole un Papa donna, l’Albanese che dirige il Ministero della Verità, l’Albanese che è tutta colpa di quei porci di occidentali, l’Albanese che caccia Israele dall’Eurovision, l’Albanese che vince il derby con un gol in rovesciata al novantaduesimo, l’Albanese che accarezza solo i bambini neri, perché quelli biondi sono tutti nazisti, l’Albanese che invade la Polonia.
Di più. Sempre di più. Fino a quando, a un certo punto, il troppo stroppia, la ruota gira, il rutilante mondo dello showbitz ha bisogno di un nuovo fenomeno da baraccone alla settimana e in un batter di ciglia finisci dentro il secchio della spazzatura. E’ la sindrome di Shirley Temple. Il tuo giro sulla giostra è finito, ti sei coperto di ridicolo a sufficienza e adesso c’è qualcun altro a fare il ballo della scimmia nel gran circo dell’intrattenimento. A te rimane il destino di tutti gli altri falliti, assiepati alla macchinetta del caffè in ufficio a dire peste e corna del capo e a ricordare i bei tempi andati, quando erano loro a decidere i destini del mondo.
@DiegoMinonzio
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