C’è un filo rosso che unisce tutti gli interventi sul caro-energia (e non solo) degli ultimi anni: l’emergenza permanente.
Ogni governo, puntualmente, tira fuori dal cilindro un bonus “una tantum” che dovrebbe tamponare la situazione. Anche il governo Meloni non si discosta da questa linea. L’ultimo capitolo è il contributo straordinario da 55 euro previsto per il 2026 per le famiglie “vulnerabili” sotto i 15 mila euro di Isee e quelle con 4 figli fino a un Isee di 20 mila euro.
Pannicelli caldi, diciamolo senza giri di parole. Cinquantacinque euro: nemmeno l’equivalente di un paio di bollette estive con il condizionatore acceso una volta ogni tanto. E considerata l’evasione che c’è in Italia, finiranno pure in tasca a molta gente che non ne ha bisogno.
La platea è ampia - 4,5 milioni di famiglie - e questo fa capire quanto il problema sia ormai sociale, non più circoscritto alle fasce marginali. Ma è proprio questo che rende la misura così insufficiente. Una tantum, limitata, simbolica. Il Codacons ricorda che, per i “vulnerabili”, le tariffe della luce nell’ultimo trimestre 2025 saranno ancora più alte dell’8,6% rispetto allo stesso periodo del 2024. E se si torna indietro al 2020, il salasso diventa quasi imbarazzante: più 49,7%. Non occorre essere economisti per capire che 55 euro non spostano di un millimetro il baricentro della spesa energetica delle famiglie.
È come offrire un bicchiere d’acqua fresca a chi sta attraversando il deserto: un gesto gentile, certo, ma che non risolve la traversata.
L’Unione nazionale consumatori parla apertamente di «passo indietro»: nel 2025 il bonus straordinario era di 200 euro ed era esteso a Isee più alti, fino a 25mila euro. Qui scendiamo a un quarto dell’importo e restringiamo le maglie della platea.
È un arretramento, e lo è proprio nel momento in cui alle famiglie servirebbe stabilità. Ma la logica del bonus obbedisce anche a una logica che mira ad attirare consensi. In politica il ricorso ai bonus una tantum non è un mistero: risponde a una logica elettorale precisa.
I governi tendono a privilegiare misure immediate e visibili perché l’elettore medio valuta soprattutto ciò che percepisce nel breve periodo. È il cosiddetto short-termism: una riforma strutturale richiede anni per dare frutti, magari quando al governo ci sarà qualcun altro; un bonus, invece, produce un beneficio istantaneo e facilmente attribuibile a chi lo ha deciso.
Qui entra in gioco anche il credit-claiming: i politici hanno bisogno di atti il cui merito possono rivendicare con chiarezza.
Un trasferimento diretto - 55 euro, 100 euro, una “card spesa” da consumare, come quella “dedicata a te” - è perfetto per questo scopo.
Si comunica in un titolo e arriva subito nelle tasche dei cittadini. Una riforma del mercato energetico, al contrario, non è fotogenica, è molto complicata, non ha un «prima e dopo» immediato, e soprattutto non consente al governo di dire: “Questo cambiamento è merito mio”.
I bonus funzionano perché sfruttano anche un altro meccanismo ben noto studiato dagli scienziati della politica: la memoria selettiva dell’elettore. Le persone ricordano ciò che è recente, tangibile e semplice. Non gli iter legislativi complessi né effetti diluiti nel tempo.
E così, nel ciclo elettorale, i governi finiscono per ripetere la stessa formula: misure temporanee ad alto impatto simbolico, che però lasciano irrisolti i nodi strutturali e privilegiano l’urgenza sulla visione di lungo periodo. Una strategia che paga sul piano del consenso, molto meno su quello della sostenibilità economica del Paese.
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