Gli esperti militari hanno spiegato con chiarezza il senso delle affermazioni (forse un po’ troppo tranchant) dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone sulla possibilità di un “cyberattacco preventivo” della Nato alla Russia. Non di una escalation si tratterebbe, ma di un’azione da far scattare un minuto prima di una imminente minaccia russa più grave di quelle che quasi ogni giorno capitano addosso ai Paesi dell’Ue almeno dallo scoppio della guerra in Ucraina.
Ma nonostante le rassicuranti spiegazioni degli ambienti militari, i partiti italiani sono riusciti a polemizzare tra loro proprio nel periodo del voto sul nuovo pacchetto di aiuti dell’Italia al governo di Kiev. Le cui difficoltà che stanno colpendo il cuore del potere del premier Zelensky, hanno dato non poco fiato al fronte “filo putiniano” che da noi percorre trasversalmente maggioranza e opposizione. Con una differenza, tuttavia.
Nel centrodestra Salvini, per quanto rilasci ogni giorno dichiarazioni sempre più infuocate contro Kiev («Non diamo i soldi delle nostre tasse per pagare i loro vizi e lussi»), tuttavia non ha mai minacciato di votare contro le decisioni del governo di cui fa parte. In ogni occasione, alla fine la Lega si è allineata pur ripetendo che «il bellicismo non serve, bisogna trattare la pace». Del resto anche la Lega ha il problema di mettersi al vento rispetto all’amministrazione Usa e alle giravolte di Trump, e in ogni caso non può certo permettersi il lusso di provocare una crisi di governo, oltretutto nell’ultima fase della legislatura prima del voto del 2027. Anche quando il ministro della Difesa Guido Crosetto annuncia un disegno di legge per reintrodurre la leva militare, ancorché volontaria, proprio per prepararsi alle minacce del Cremlino, la Lega riesce a non creare niente di più che una increspatura polemica senza vere conseguenze. Tant’è che Meloni, Tajani e Crosetto possono andare avanti senza soverchie preoccupazioni e senza doversi troppo imbarazzare con il capo dello Stato, custode molto ascoltato all’estero della collocazione internazionale dell’Italia. In realtà, le complicazioni più serie e gravose si riscontrano sull’altro fronte, quello del cosiddetto campo largo che proprio sui nodi della politica estera rileva le contraddizioni più difficilmente sanabili. Nel Pd il fronte cosiddetto “riformista” è impegnato ogni giorno a contenere la linea della segretaria Schlein nei limiti più tradizionali, che vuol dire stare con l’Ucraina e restare fedeli alla Nato (al netto di Trump), evitare di sposare un pacifismo che somigli troppo al filo putinismo e anche - su un altro scacchiere un sostegno al popolo palestinese che faccia pensare ad una condiscendenza verso Hamas (tant’è che sindaci Pd stanno seriamente ripensando alle cittadinanze onorarie frettolosamente concesse a Francesca Albanese).
Viceversa il M5S e AVS di Fratoianni e Bonelli non hanno di queste remore e possono proclamare il loro pacifismo radicale senza dover rendere conto a nessuno. Anzi, la speranza di quei partiti è proprio di raccogliere maggiori consensi elettorali spingendo sulla propaganda pacifista e sulla protesta contro il genocidio.
Dunque, se Elly Schlein avesse accettato l’invito malizioso di Giorgia Meloni a partecipare ad Atreju al confronto con la premier insieme a Giuseppe Conte, si sarebbe esposta a giustificare troppe contraddizioni del campo largo. Che rimangono e che sono forti anche in vista del momento in cui in qualche modo il centrosinistra dovrà decidere chi sarà il suo candidato/a premier alle elezioni del 2027.
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