Le conseguenze politiche del voto di domenica e lunedì per i governatori di Veneto, Puglia e Campania sono più pesanti di quanto si possa pensare e stanno provocando conseguenze non piccole in entrambi gli schieramenti in lizza. Il primo elemento è che il partito di Giorgia Meloni non ha avuto il risultato sperato. Il primo obiettivo era mettere un uomo di FdI alla guida di una Regione importante come la Campania; la seconda era di imporre un peso elettorale preponderante in Veneto per riequilibrare il governatore ancora una volta scelto dalla Lega. In entrambi i casi le cose sono andate male. Edmondo Cirielli è stato di gran lunga battuto in Campania da Roberto Fico grazie ai voti di Vincenzo De Luca, potente governatore uscente mai rassegnato a perdere il proprio potere, e – per quello che contano – grazie ai consensi del Movimento Cinque Stelle. Inoltre in Veneto, trascinata da Luca Zaia la Lega ha addirittura doppiato Fratelli d’Italia confermandosi il partito più votato della Regione.
Se uniamo a questi risultati anche quello, perdente e modesto, del candidato del centrodestra in Puglia dove ha stravinto Decaro, possiamo arrivare ad una previsione piuttosto inquietante per le politiche del 2027: con queste percentuali il centrodestra cederebbe al «campo largo» un consistente numero di seggi nei collegi. Chi si è messo a fare il conto ne ha dedotto che così stando le cose il centrodestra non avrebbe una maggioranza sicura al Senato (ma nemmeno il centrosinistra: sarebbe stallo). Dunque il primo risultato di queste regionali: Meloni preme per discutere subito il premierato e pensa già a riformare la legge elettorale «per garantire la stabilità della prossima legislatura».
Inoltre Meloni deve mettere uno stop ai suoi alleati che avanzano già richieste in forza dei loro voti: Salvini – che si fa vanto dei voti in Veneto in realtà dovuti a Zaia – blocca la legge sugli stupri, e anche Tajani, che ha una Forza Italia che cresce ovunque anche se di poco, si oppone a mettere il nome (Meloni) del candidato premier sul simbolo. Questo non vuol dire che, per esempio, Salvini non abbia i problemi di casa sua: le prime dichiarazioni di Zaia («Ho preso 200.000 preferenze e passa, ecco cosa volevo dire quando ho previsto che sarei diventato un problema») non promettono niente di buono per il clima dentro la Lega.
Come si vede, il contesto è complicato.
Se andiamo a vedere le conseguenze sull’altro campo, quello del cosiddetto «campo largo», ci accorgeremo che Elly Schlein ha portato a casa il successo in Puglia e Campania grazie ai «cacicchi» del Sud che lei avrebbe voluto spazzare via, mentre i «suoi» inesperti candidati arrancano e spesso non riescono a farsi eleggere. In ogni caso anche lei, come Salvini, si gloria dei voti ricevuti grazie a De Luca e a Decaro, e così può insistere sull’alleanza con il M5S che lei «testardamente» persegue. Del resto si sa che un centrosinistra unito combatte ad armi pari col centrodestra e può vincere; un centrosinistra diviso come nel 2022 non può che essere sconfitto. Dunque lei andrà avanti sulla sua linea ma stando attenta a due cose.
La prima è che il M5S, ridotto nei territori a percentuali molto basse, potrebbe essere tentato di seguire la premier Meloni sulla strada della riforma elettorale in senso proporzionale. La seconda è che nel Partito Democratico le correnti si stanno riorganizzando e non hanno alcuna intenzione di lasciare che Elly Schlein governi il partito con i suoi soli fedelissimi. In fondo, nelle Regioni, a far vincere il PD con i loro voti sono stati Decaro, De Luca, Giani, Proietti. Tutti riformisti.
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