“La Repubblica” sta al giornalismo italiano come Céline sta alla letteratura del Novecento e come l’Olanda del 1974 sta al calcio. Dopo la loro apparizione, tutto il resto è sembrato immediatamente vecchio. Dopo Céline nessuno ha più potuto scrivere come prima. Dopo l’Olanda nessuno ha più potuto giocare a pallone come prima. Dopo “La Repubblica” nessuno ha più potuto fare un giornale come prima.
È per questo che le vicende legate alla vendita del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari nel 1976 e, dopo lunghi anni di declino, alla fine sostanziale di quel modello vanno molto oltre la mera storia del giornalismo - di quotidiani nati, vissuti e morti ne è pieno il mondo - per rappresentare invece un pezzo della storia recente d’Italia, del suo profilo di società, della sua antropologia culturale, che si è dipanato tra gli anni Settanta e l’inizio del nuovo millennio e che ora possiamo cogliere nella sua luce sfolgorante e nella sua malinconica irripetibilità.
Quel giornale, al di là della clamorosa rivoluzione grafica, concettuale, di formato, dello stravolgimento del linguaggio, delle pagine culturali, della politica vista come retroscena, costume, spogliatoio calcistico e dell’impressionante parterre di grandi firme, una squadra di fuoriclasse, un elenco da far rabbrividire rispetto a quello di oggi - ma questo vale per tutti i quotidiani - bene, quel giornale non era solo un giornale. Era molto di più. E di molto diverso. Era anche un partito, il temutissimo “partito di Repubblica”, come astiosamente chiosato dai suoi innumerevoli nemici. Era anche la propagazione della potenza politica del Pci e di quella culturale della più raffinata editoria, da Einaudi a Feltrinelli fino ad Adelphi. Era il postulato che dava la linea su vicende dirimenti come il terrorismo, la guerra a Craxi e Andreotti prima e a Berlusconi dopo, Tangentopoli. Era soprattutto “una certa idea dell’Italia”, secondo la celebre definizione del fondatore, a sua volta mutuata da Piero Gobetti. Altissimo livello giornalistico, niente da dire, strepitosa capacità di penetrazione nei gangli del mondo sociale e culturale, esibito tasso di snobismo. Ma ci sta. I grandi del giornalismo hanno spesso una grande considerazione di sé.
E la teoria suprema, la pietra d’angolo che ha sostenuto quei decenni di crescita esponenziale delle vendite e dell’autorevolezza, culminati nello storico sorpasso del dicembre 1986 ai danni del “Corriere della sera” (515mila copie contro 487mila: se si pensa ai dati di oggi viene da piangere), consisteva nello sbarco sul mercato in un’Italia completamente diversa - il Pci aveva il 30% e l’egemonia della sinistra era davvero un’egemonia gramsciana, non la barzelletta di oggi, alla quale si contrappone la barzelletta della nuova egemonia di destra - di un editore totalmente, integralmente e finalmente puro. Purissimo. Più puro del puro. E che di conseguenza, in base alla sua assoluta purezza, si era autoassegnato il ruolo di contropotere, unico baluardo dell’Italia dei liberi e degli onesti nei confronti della palude, anzi, del regime democristiano-pentapartitico, supportato da tutti gli altri editori, che in quanto “non puri” erano, volenti o nolenti, parte del regime.
Intuizione straordinaria di Scalfari - il più importante direttore della seconda metà del Novecento, per distacco - che aveva capito quali e quante praterie di italiani “migliori” stessero attendendo uno strumento laico e moderno per potersi riconoscere, per potersi identificare, a cui potersi affidare. Un giornale grandioso. Un’operazione editoriale, poi ampliata negli anni con riviste, quotidiani locali, radio eccetera, che rappresenta un unicum nel panorama italiano. E del quale oggi, purtroppo, non rimane quasi più nulla.
Ma al di là delle singole responsabilità, non è questo il tema, non poteva che finire così. Perché è proprio l’idea fondatrice a non essere più collegata ai nuovi tempi, alla nuova società, alla nuova cultura o sedicente tale, bella o brutta che sia. E quando un giornale non parla ai suoi tempi e si rivolge a una società che non esiste più non può che andare in crisi. E questa non è altro che la crisi profondissima, paradigmatica, generazionale della sinistra - nessuno ne gioisca, una sinistra così allo sbando fa male anche alla destra perché la rende pruriginosa, boriosa, arrogante: la rende peggiore - che non capisce più nulla di quello che accade, che si avvita attorno a slogan triti, ritriti e ridicoli come il ritorno del fascismo, figli di una stagione finita mille secoli fa, e che pensa ancora di essere diversa, di essere smart, di essere antropologicamente superiore e, quindi, si parla addosso trombonando sulla berlingueriana questione morale - “La terrazza”, profetico capolavoro del comunista Ettore Scola, è del 1980 e lì dentro c’è già tutto - e se la canta e se la suona mentre nessuno la ascolta. Mentre la realtà è da tutt’altra parte.
Nessuno è puro. Nessuno. Tantomeno gli editori e i loro giornalisti. Non esistono notizie caste, educate, pedagogiche. Esistono i poteri e la loro competizione. Esistono i capitali di rischio, il rischio d’impresa e la difesa di interessi legittimi o anche miserabili. Nessuno rappresenta il Bene. Nessuno deve essere educato, pedagogizzato, indottrinato. Tutti devono stare sul mercato. Ed è davvero irritante vedere che se chiude il giornale tal dei tali la gente fischietta, mentre invece se è a rischio il “giornale dei migliori” tutta la società politica e civile “deve” ergersi a sua difesa perché quello e solo quello è il depositario della verità, dell’unica verità, della verità collettiva. Via, Verità e Vita.
È questo il punto che, come detto, va molto al di là del giornalismo. Il punto è la sinistra e il suo disorientamento. Se “La Repubblica” è in crisi e la compra un armatore greco non è la fine del libero giornalismo (sempre che esista o che sia mai esistito). Se la sinistra perde le elezioni non è che ritorna il fascismo. È questo il labirinto da cui quel mondo, o quel che ne rimane, deve assolutamente uscire. Ci vorrebbe un nuovo Scalfari per trovare la porta.
@DiegoMinonzio
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