Vent’anni dopo. O forse trenta, o magari quaranta. Qui però Alessandro Dumas e i tre moschettieri non c’entrano, anzi viene evocato un solo protagonista. Certo, utilizzava più lo spadone che il fioretto, ma di sicuro combatteva. Si chiamava, e si chiama tuttora, Umberto Bossi, fondatore e leader di quella Lega Nord che dagli anni ’80 fino all’avvento di Matteo Salvini è stato il movimento che più di ogni altro si è occupato della “Questione settentrionale” e della contesa per liberarsi dal giogo di “Roma ladrona”: i ricchi tributi dell’area più produttiva del Paese in viaggio verso la capitale con biglietto di sola andata.
Una faccenda che sembrava morta e sepolta e che invece è stata riesumata, in occasione della “prima” alla Scala, dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana.
Quest’ultimo, va detto, era (e forse è ancora) un “bossiano” di ferro che, come tanti, si è adattato non proprio di buon grado al nuovo corso del partito nazionale imposto dal segretario e “Capitano” Salvini. Chi scrive, nel 2005, in occasione della crisi della giunta leghista di Varese guidata dal sindaco Aldo Fumagalli, era andato a stanare Fontana, allora presidente del Consiglio regionale, per chiedergli se sarebbe stato il prossimo candidato sindaco. La risposta era stata: «Farò quello che dice Bossi», che infatti l’avrebbe poi spedito alla guida della Città Giardino.
Nel foyer del teatro in occasione della “Lady Macbeth”, l’opera che a Sant’Ambrogio ha aperto, come tradizione, la stagione scaligera, l’attuale numero uno di Palazzo Lombardia aveva rimarcato l’assenza della politica romana alla kermesse, disertata tanto dal capo dello Stato Sergio Mattarella,quanto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ieri il governatore lombardo è tornato sull’argomento in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, dove ha rincarato la dose. Non ha risparmiato frecciate ai ministri leghisti assenti alla “prima”, Salvini in testa: «L’amatriciana piace a tutti». E alla domanda che rievocava i timori del Senatùr – che chiedeva ai leghisti eletti in Parlamento di evitare alberghi e mondanità della capitale per non “compromettersi” – Fontana ha risposto: «Bossi aveva ragione». E non solo. «È Roma che da sempre vive con pregiudizio e fastidio la realtà lombarda, perché noi rappresentiamo ciò che dovrebbe accadere ovunque ma succede soltanto qui. E questa cosa evidentemente fa girare un po’ le scatole e noi siamo vissuti come antipatici».
Poi ancora: «In questa fase di grande vitalità e trasformazioni è importante affrontare il tema del Nord. Ma è un argomento da impostare adesso, non dopo. Ed è un’operazione nell’interesse di tutti, perché il Nord, che produce di più e sostiene economicamente l’intero Paese, non può e non deve rischiare di perdere o di vedere frenate le proprie potenzialità».
Infine: «A Roma certe cose non le capiscono. Ricordo ancora nitidamente quando, tanti anni fa, da giovane sindaco di Induno Olona, in provincia di Varese, andai al ministero per portare alcune questioni relative ai lavoratori transfrontalieri: sembrava che stessi parlando dei marziani. Ma è proprio questo il valore della territorialità della politica: rendere condivisibili temi che altrimenti non avrebbero attenzione».
Insomma, un ritorno alla mai risolta “Questione settentrionale”, un tema peraltro dibattuto anche all’interno del Carroccio, partito in cui però la linea imposta dal segretario Matteo Salvini va in un’altra direzione: quella di raccogliere più voti possibile anche al di sotto del Po. Per preservare gli interessi del Nord c’è l’idea di un’imitazione del modello della Cdu con la Csu bavarese, che però si innesta su uno Stato federale, e di un ruolo di Luca Zaia come possibile catalizzatore delle istanze politiche nordiste. Va detto che l’ex presidente del Veneto si muove con agio nelle acque della Serenissima più che nella limacciosa palude romana.
Ci vorrebbe il Senatur Bossi, insomma. Il problema è che lui, sul pezzo, non può più esserci.
@angelini_f
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