I tempi eroici di ieri. Oggi c’è solo pochezza

Con il referendum del 2 giugno 1946 l’Italia ha scelto i valori di libertà, democrazia e pace, che sono alla base anche delle Forze Armate (cento le missioni internazionali di vario genere dei nostri soldati dal 1990). Il presidente Mattarella parla il linguaggio della storia per leggere il contesto globale segnato dal collasso della ragione.

Sembra invece che Giorgia Meloni, riferendosi ai prossimi referendum (lavoro e cittadinanza), parli il più modesto linguaggio della cronaca, perché ha introdotto una variante fuori contesto rispetto al peso specifico della Festa della Repubblica, quando ha detto che andrà a votare. ma non ritirerà la scheda: opzione certo legittima, ma un equilibrismo che nuoce alla chiarezza. Poiché il referendum prevede il quorum di partecipazione, non ritirare la scheda equivale a non votare. Già lo hanno annunciato diversi esponenti di centrodestra e pure la seconda carica dello Stato, ma probabilmente la premier - dinanzi all’articolo 48 della Costituzione che definisce un «dovere civico» l’esercizio del voto - ha voluto addomesticare per il pubblico la propria scelta, affidandosi al gioco delle parole. La frase di Meloni può avere tuttavia un effetto da lei non voluto: stimolare per opposizione l’affluenza alle urne e prepariamoci ai fuochi d’artificio dei prossimi giorni.

Le parole, però, pesano e definiscono un profilo istituzionale. E i quasi 80 anni che ci separano da quel 2 giugno rivelano una grandezza sfiorita irrimediabilmente nel tempo. A volte un cammino all’indietro. Una Festa che, nelle varie stagioni politiche, ha avuto un andamento discontinuo fino al ripristino deciso dal presidente Ciampi, volto a rifondare il “patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva e come risposta alle suggestioni secessioniste. Quella data, nell’autobiografia italiana, rappresenta una cesura con il fascismo (e il nazionalismo) per unire, fin dove possibile e pur in un contesto di durissimo scontro ideologico, una comunità nella ricostruzione. Il concetto di Repubblica è inscindibile da quello di democrazia costituzionale e con questo impianto l’Italia è entrata nella nuova Europa: diritti e doveri, limiti al potere, principio di legalità, giustizia sociale. «La sovranità - recita il secondo comma dell’articolo 1 - appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dunque, anche il «popolo sovrano» non può e non deve essere un sovrano assoluto, ma sottoposto a vincoli. Passione e razionalità, partiti e istituzioni.

Il costituente Piero Calamandrei ha visto in quel giorno un «miracolo della ragione», anche perché la Repubblica è nata in modo composto. Nessun salto nel buio, come paventavano i benpensanti, per i quali la Repubblica esprimeva «la parola mite per dire rivoluzione». Il referendum sulla forma istituzionale dello Stato e la votazione per l’Assemblea costituente incaricata di redigere la Costituzione sono state le prime elezioni dal 1924 e le prime a suffragio universale maschile e femminile nella storia del Paese. L’affluenza è stata dell’89%, la Repubblica ha vinto con il 54%, circa 13 milioni di voti contro quasi 11. La Costituzione è stata l’esito di una sostanziale unità antifascista che ha prodotto un compromesso di qualità. Ma allora le forze politiche si avviavano ad essere partiti di massa e le classi dirigenti, temprate dalla sofferenza, avvertivano la responsabilità di un disegno comune. Quel mondo, per qualità e tensione ideale, non c’è più. Enzo Cheli, ex giudice della Consulta, ha descritto recentemente due percorsi opposti dell’esperienza repubblicana: la Costituzione è nata debole per l’originaria divisione delle forze politiche, ma nel tempo è diventata forte per il suo progressivo radicamento nella società, mentre il sistema dei partiti era forte nel primo Dopoguerra, divenendo sempre più debole per il suo distacco dal corpo sociale, dalla lontananza che separa governanti e governati.

La scorciatoia è stata quella di addebitare alla Costituzione (peraltro non ancora completamente attuata e sottoposta a tentativi di riforma mal congegnati) deficit che appartengono piuttosto alle disfunzioni dei partiti e allo smantellamento della loro dimensione di massa e ideale. La storia, si sa, non è lineare ed è difficile negare la realtà di tendenze regressive che sono sotto gli occhi di tutti, fattesi acute dagli anni ’90 in poi con il passaggio dalla Repubblica dei partiti ad una partitocrazia senza partiti. I quali hanno smarrito la loro ragion d’essere: canale di partecipazione politica, laboratorio di un’idea di società. La Prima Repubblica è sorta dal sostegno popolare di massa, la Seconda vive nel disimpegno di massa. Celebrare il 2 giugno significa riflettere sulla distanza enorme fra i tempi eroici di ieri e il tempo della pochezza culturale di oggi.

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