Lecco: Infortuni sul lavoro, la paura frena le denunce

A pochi giorni dall’ultima morte bianca nel Lecchese, la sicurezza resta un tema urgente.Tempestività, verità e supporto: i consigli del Patronato Inca Cgil per tutelare i propri diritti dopo un infortunio. Come affrontare l’iter burocratico e superare la paura.

Lecco

La paura di denunciare, i dubbi su cosa dichiarare e la sensazione di essere soli di fronte a procedure complesse: per molti un infortunio sul lavoro non è solo un evento improvviso, ma l’inizio di un percorso incerto e complesso. A pochi giorni dall’ultima morte bianca nel Lecchese, la sicurezza resta un tema urgente. Se da un lato servono prevenzione e controlli, dall’altro, nel silenzio, c’è tutto ciò che accade dopo l’incidente, nelle ore e nei giorni in cui ogni scelta pesa.

«La prima cosa da chiarire – afferma Luca Picariello, direttore del Patronato Inca Cgil di Lecco – è che la tempestività è decisiva: ciò che si dichiara al pronto soccorso può determinare l’esito dell’intera pratica». Secondo Picariello, infatti, «andare subito in un presidio sanitario e ottenere un certificato specifico di infortunio sul lavoro, non di malattia generica, è il punto di partenza della tutela». È proprio nelle prime ore che la paura di “dare fastidio all’azienda” o l’istinto di minimizzare possono diventare un problema serio: «Per amicizia, senso di colpa o timore, capita che un lavoratore dichiari un incidente domestico – racconta – ma in quel caso non si è tutelati e si rischia di compromettere tutto». «E spesso – aggiunge – è proprio la paura a bloccare le persone: la paura di esporsi, peggiorare i rapporti sul luogo di lavoro, non essere creduti. Ma quella stessa paura rischia di diventare ciò che ci impedisce di combattere per i nostri diritti».

Il percorso, una volta aperto l’iter, è scandito da verifiche e tempistiche dell’Inail: prognosi, eventuale visita, possibile proroga o chiusura dell’infortunio. «Non sempre la chiusura coincide con la capacità reale di tornare a lavorare – spiega Picariello –. Se un lavoratore non è in grado di rientrare, l’infortunio può e deve essere riaperto, ma serve conoscere le modalità e i tempi». Ed è in questa fase che entra la componente tecnica: spese sanitarie coperte dall’Inail (tranne i primi tre giorni a carico del datore di lavoro), visite, certificazioni e soprattutto il riconoscimento percentuale del danno, da cui possono derivare indennizzi o rendite. «Dal 6% in poi si ha diritto al danno biologico, una liquidazione in capitale, e oltre il 16% a una rendita vitalizia – precisa –. Anche un 1% ha un valore: fa storia, perché resta e permette di rivalutare aggravamenti negli anni».

Un altro fronte spesso sconosciuto è il danno differenziale, cioè la parte di danno non coperta dall’Inail e che può essere richiesta al datore di lavoro in caso di responsabilità. «È davvero la differenza tra ciò che viene riconosciuto e ciò che realmente la persona ha perso – sottolinea –. Può cambiare la vita di chi ha subito un danno permanente». Una possibilità percorribile anche a distanza di anni, come racconta un episodio seguito dal Patronato: «Una vedova, dopo un lungo iter, si è vista riconoscere, all’ex coniuge, una rendita dell’80%, con conseguente reversibilità: questo le ha cambiato l’esistenza».

In questo scenario, emerge con forza il ruolo del sindacato e del medico legale. «Un patronato agisce a titolo gratuito, ha competenze interne, medici e avvocati – ricorda Picariello –. Nessun lavoratore dovrebbe affrontare da solo un iter che può incidere sui propri diritti economici per anni e dunque sulla propria qualità di vita». Anche perché molte tutele nascono proprio da un confronto tecnico: ricorsi amministrativi, visite collegiali, fino (quando serve) al contenzioso.

«Il tempo conta quanto la diagnosi – conclude –. Farsi vedere subito, dichiarare la verità, denunciare con forza, non scoraggiarsi e affidarsi a chi può accompagnare la persona passo passo è fondamentale per non trovarsi soli nel momento più delicato».

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