Canottieri la lezione alla politica da talk show

Tra i tanti argomenti di una politica da salotto ormai incapace di spingere lo sguardo oltre il proprio ombelico, c’è quello dell’affluenza. Lontani i tempi del 93% fisso di metà Prima Repubblica o dell’80% e passa della Seconda.

A ogni tornata elettorale (che sia nazionale, regionale o comunale), si sprofonda via via su percentuali di votanti degne di uno share televisivo. Candidati e segretari di partito (vincenti e perdenti, non c’è distinzione da questo punto di vista) a quel punto si costernano, s’indignano e s’impegnano a denunciare la grande peste civile del nostro tempo. Schiere di opinionisti si affollano a puntare il dito contro il male del secolo: questo moderno riflusso per combattere il quale sono inefficaci pantoprazoli e antiacidi al gusto di menta. Tra le righe del grottesco che accompagna simili riflessioni, pare quasi di cogliere un giudizio sommario di colpa: sono gli elettori, e chi altri, i fedifraghi che non partecipano alla grande abbuffata democratica. La politica non ha colpe, anzi apparecchia la tavola dei migliori intenti e dei più alti contenuti. Ma se l’elettore medio se ne sta a casa, non sarà certo colpa della politica. Così, pare di sentir dire.

Al che viene da domandarsi se parliamo della stessa politica. Di sottosegretari con il grilletto facile a Capodanno, di leoni da tastiera che se le cantano con verve adolescenziale, di slogan, di ponti, di sardine, e chi più ne ha più ne metta.

Da questo punto di vista, è accaduto qualcosa a Lecco che merita di tornare brevemente sotto i riflettori. Le elezioni in Canottieri.

Breve riassunto di quanto accaduto. Dentro il direttivo della Società si erano create profonde divisioni riguardo la corretta gestione dei due nuclei sportivi fondamentali per il gruppo: il nuoto e il canottaggio. Ne è scaturita una fase piuttosto convulsa di dimissioni, smentite e nuovi abbandoni in seno all’organo di Consiglio per poi arrivare a elezioni straordinarie. Si sfidavano due distinte fazioni (più qualche nome in solitaria) con ben chiari capicordata: lo storico presidente Marco Cariboni e il sindaco di Malgrate Michele Peccati. Ora, non è interesse di questo fondo stabilire chi avesse e ha meriti o stellette per vincere. Né contano i risultati. Anche se, diciamolo, la sfida nove contro nove terminata con uno stacco di soli sei voti dopo otto ore di interminabili scrutini, un po’ di pathos l’ha regalato.

Ma non è questo il punto. Il punto è che la gente (i soci, in questo caso) ha votato. In massa, sfiorando gli ottocento votanti e con percentuali di affluenza mai toccate per un rinnovo di direttivo. Ma in fondo quali sono le ragioni? Si votava su proposte chiare e riconoscibili, si votava potendo scrivere nome e cognome di chi si voleva in Consiglio. Si votava perché non c’erano in gioco slogan, ma esigenze concrete. Si votavano volti, si votavano linee di gestione ben definite. Dentro o fuori per allenatori e dirigenti, dentro o fuori per accordi specifici sulle strutture sportive. Dentro o fuori addirittura per l’uso di locali o per le regole di fruizione degli spazi collettivi.

E allora, viene da domandarsi, cos’è la politica se non questo? Leggere necessità, suscitare interesse, portare a votare chi avverte il bisogno che le cose cambino prospettiva.

Quand’è che la politica ha pensato di poter fare a meno di tutto questo? Del contatto diretto con idee semplici, con bisogni elementari, con la fatica di levare le sovrastrutture di dosso alle proposte?

Ora, nessuno ha la pretesa di sostenere che la Canottieri Lecco sia uno specchio perfetto della società lecchese o, peggio, di quella nazionale.

E’ un sintomo, solo un piccolo segnale. Non è vero che la gente è stufa della politica. La gente ha fame di politica. In un contesto sociale disgregato e traboccante di problemi immediati e quotidiani, c’è nell’aria un bisogno enorme di politica, si respira la voglia di metterla in atto nel suo senso più pratico ed etimologico.

A patto, ovviamente, di avere il coraggio di guardare negli occhi la gente, rinunciando al totalitarismo ideologico dei simboli di partito e degli ordini di scuderia.

Altrimenti la politica rischia di essere una gran massa di narcisisti, che si guardano perplessi allo specchio, scuotendo la testa di fronte al calo di adorazione che invece sentono di meritare.

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