Si poteva fare di più e meglio? Forse. Dobbiamo essere soddisfatti? Gli aspetti positivi prevalgono su quelli negativi. Meglio dirlo subito: la festa dell’Europa che si è celebrata ieri, l’anniversario della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, dovrebbe essere motivo di orgoglio, non di risentimento.
Per quanto imperfetta, spesso picconata e in divenire, la costruzione dell’Europa comunitaria ha garantito la pace per il periodo più lungo della nostra storia, insieme con la crescita della democrazia e di un relativo benessere. Lo dobbiamo ad una generazione di statisti lungimiranti, di cui l’Italia di De Gasperi è stata parte integrante, che hanno cominciato a mettere in comune gli strumenti della guerra (carbone e acciaio) ponendoli al servizio della pace, creando una solidarietà di fatto. I principi ispiratori restano validi, specie ora che il continente è sfidato all’esterno dai neoimperialismi e all’interno dai nazionalismi. Quello che è stato definito un “miracolo”, o più probabilmente l’indispensabile ritorno alla razionalità, non era scontato.
Dopo due guerre mondiali, si trattava di ricreare le ragioni della convivenza civile, cioè superare l’antagonismo Francia-Germania, evitare gli errori della pace punitiva di Versailles, consentire la rinascita degli sconfitti, misurarsi con i rigori della Guerra fredda, mentre mezza Europa stava nel mondo libero e l’altra metà satellizzata dall’Urss.
La Cee di allora, che oggi è l’Unione europea, va vista all’interno di quella architettura multilaterale che ha ridefinito il sistema della relazioni internazionali (dall’Onu alla Nato e alle organizzazioni economiche) governato dai meccanismi rigidi del conflitto ideologico e geopolitico fra Stati Uniti e Urss.
Quel mondo non c’è più e nel momento in cui il ritorno del passato sembra proporsi come il nostro futuro dovremmo chiederci a che punto siamo. Così come è stata dismessa, pur avendo retto a lungo, l’idea originaria che gli interessi economici convergenti avrebbero portato all’integrazione politica. Perché in fondo il progressivo smantellamento dell’ordine liberale e la crisi della liberaldemocrazia vengono da lontano.
Oggi ne vediamo la dimensione più dirompente sia nelle sofferenze umane sia nella logica del più forte. Dovremmo chiederci come europei a che livello è lo stato dell’arte e fino a che punto abbiamo capitalizzato l’eredità dei padri fondatori: la capacità, cioè, di invertire il corso fallimentare della storia.
Nella stagione d’oro l’Europa ha raggiunto traguardi ragguardevoli dentro la realizzazione dello Stato sociale e del compromesso fra capitale e lavoro.
Nata a 6, ora è a 27 e nessuno vuol più uscire. Da tempo tuttavia si avvertono scricchiolii pericolosi, come il rilancio degli Stati nazione a scapito della dimensione sovranazionale e di cui i sovranismi di varia natura –che passano dalla piazza al potere – rappresentano l’effetto più evidente.
Crisi esistenziale manifesta, perché ci troviamo a un tornante delicato della storia: negli ultimi 20 anni il mondo è cambiato e la crisi con l’America di Trump dice che se l’Europa non accelera verso l’integrazione politica e il completamento di quella economica rischia il declino.
L’Europa è come la libertà: avvertiamo la necessità della sua presenza proprio quando temiamo che si disperda, preparandosi al congedo. Più che bilanci servirebbe rispondere alla domanda suggerita da “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?
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