La luce del Papa su un mondo tormentato

Poco più di tre giorni. Eppure forse già si può indagare sulle conseguenze di Leone XIV, Robert Francis Prevost, il Papa dell’Ordine di Sant’Agostino, l’uomo della città di Dio e della città dell’uomo.

Quella dell’ 11 maggio era la sua prima domenica di servizio e lui ha acceso la luce sul mondo tribolato dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, sulla responsabilità dei leader e su quelle di tutti. Due volte ha ripetuto le parole di Wojtyla «Non abbiate paura», parole del Vangelo sulla responsabilità personale, perché l’uomo ha un ruolo circa il suo destino. Nelle parole dei primi tre giorni torna l’eco del Concilio, della grande predica zione sulla pace di chi l’ha preceduto da Benedetto XV dell’«inutile strage» a Giovanni XXIII della «Pacem in terris» all’appello di Paolo VI «Mai più la guerra» all’impegno di Wojtyla lasciato solo da tutti nella prima Guerra del Golfo alle incessanti e drammatiche riflessioni di Francesco sulla «terza guerra mondiale a pezzi».

Leone scrive su righe già tracciate, mette in gioco la pace «disarmata» e «disarmante» della Chiesa, che illumina come un faro le notti buie del mondo, non perché ha magnifiche ed efficienti strutture, ma perché mette in gioco la responsabilità dei suoi membri. Il metodo comunitario di avvicinamento ai problemi traspare dalle prime parole di Prevost. Le radici sono nel Santo del suo Ordine. Il Vangelo spaventa Agostino, lo definisce un fardello e pesante, chiede aiuto, chiede di essere sostenuto nel ruolo di «servo dei suoi servi». Leone XIV è figlio della spiritualità agostiniana e anche lui ha chiesto ai Cardinali, ma in realtà lo ha chiesto a tutti chierici e popolo, di aiutarlo a portare le responsabilità del «giogo». Mai era accaduto che un Papa lo facesse così esplicitamente appena il giorno dopo essere stato eletto in una sorta di assemblea preventiva di verifica dell’agenda che piano piano costruirà.

Nelle pieghe dei discorsi di questi giorni si rintracciano indicazioni circa un’ecclesiologia profondamente conciliare, che non ha bisogno di essere nemmeno citata, definitivamente normale ormai per la Chiesa. Ha spiegato che il Papa non è un amministratore più bravo degli altri e dunque degno dell’elezione, non è neppure uno la cui preghiera a Dio vale di più. Al Regina Coeli ha sottolineato la sua «gioia» di pregare «con tutto il popolo di Dio» nella Giornata mondiale per le vocazioni, un fedele come tutti, nessun gradino più su, secondo l’insegnamento e l’assicurazione di Sant’Agostino «con voi sarò cristiano». Un’altra citazione dà indicazioni precise. A mezzogiorno ha evocato San Gregorio Magno, 64° Papa, oltre 1500 anni fa, tempo di affanno ed angoscia, guerre e pestilenze, confronto drammatico tra Imperi d’Oriente e Occidente. Leone lo ha ricordato per via della sua predicazione in quella temperie, omelie dritte come frecce, per custodire, approfondire e trasmette il senso dell’amore di Dio e la risposta dell’uomo: «Le persone corrispondono all’amore di chi le ama». Vale per tutti, anche per il Papa.

Prevost si è definito «umile servo» di Dio e dei fratelli, interprete di una sorta di ecclesiologia disarmata che ascolta e non chiude la porta orgogliosamente depositaria della verità. Sant’Agostino raccomandava di non usare mai il Vangelo come pretesto per camuffare l’aspirazione al proprio potere. Leone XIV ha gettato l’àncora in quelle parole: ascoltare, custodire, approfondire e trasmettere la Parola di Dio per servire così il popolo, tutto il popolo. Anche la scelta del nome con quel riferimento analogico tra la fine dell’Ottocento e la nostra epoca, padroni delle ferriere e padroni del digitale, mostra preoccupazione evangelica, inquietudine di un Papa e di tutti coloro che sono appassionati dell’uomo.

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