Lo scrittore liberale e i ribelli da operetta

Fra le tante cose insopportabili della culturetta sinistroide che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta di questo strampalato paese c’era la mitologia del Sudamerica.

E il dettaglio più insopportabile in questa cosa insopportabile era, nello specifico, la mitologia della letteratura del Sudamerica. E dentro questa, l’aspetto più insopportabile di tutti era la mitologia del ribellismo, del cheguevarismo, del realismo magico, del “macondismo”, ispirata al villaggio immaginario di “Cent’anni di solitudine”, come stigmatizzato in un pamphlet acuto e urticante di un giornalista culturale di vaglia come Stenio Solinas, intitolato “Macondo e P38”, appunto.

Quella retorica fanghigliosa e demagogica, che ha intasato il dibattito culturale italiano per almeno due decenni e che tanfava di occupazioni liceali, pantere universitarie, materassi pataccati, sedute di autocoscienza alla “Ecce bombo”, Inti Illimani, poncho, gonnellone a fiori, espadrillas scalcagnate, puzza di piedi, pulci, forfora, rivoluzionarismo straccione, estetismo cubano e idolatria castrista - perché a un certo punto nemmeno Urss e Cina andavano più bene, a questi cialtroni: troppo Stato, troppa industria, troppo apparato, troppa prosa, rispetto agli stereotipi caraibici e alla vanagloria della guerriglia ai gringos - e tutto il resto della fuffa sgorgata dalla lettura mal digerita del magnifico romanzo di Garcia Marquez è tornata alla mente nei giorni scorsi alla notizia della scomparsa dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa.

Non tanto perché vincitore del Nobel 2010 - tali e tanti sono i travet che lo hanno vinto e tali e tanti i giganti che non lo hanno nemmeno sfiorato - ma perché rappresentava l’esatto contrario di tutta la spazzatura che abbiamo descritto prima. Un sudamericano anti sudamericano. Un sudamericano anti castrista. Un sudamericano anti comunista, estimatore del liberalismo, dell’individualismo, di Hayek e Popper, della Thatcher e di Reagan, addirittura. Un alieno. Un solitario in quel mondo di ridicoli cantori della rivoluzione planetaria. Solo. Assieme a Borges, naturalmente - che però era un tedesco, anzi, un inglese, nato per caso a Buenos Aires - l’unico che Vargas Llosa ritenesse alla sua altezza (e qui si sbagliava, perché nessuno, o quasi nessuno, è all’altezza di Borges). Ed è proprio per questo motivo dirimente, per questa difformità antropologica che la culturetta di cui sopra non l’ha mai potuto sopportare. Vuoi mettere le banalità terzomondiste di Sepulveda?

Ora, è evidente che le biografie non debbono costituire il metro di giudizio della creazione letteraria. L’artista “è” la sua opera e tutto quello che ha detto e fatto nella vita non è interessante, non conta nulla in sede di giudizio. Quindi il Nobel a Vargas Llosa si basa su testi importanti quali “La città e i cani”, “Conversazione nella Cattedrale”, “La guerra alla fine del mondo”, oltre al celebre “La zia Julia e lo scribacchino” e a tanti altri testi narrativi, saggistici e teatrali, sul quale si sono già espressi titolati critici letterari. E tanto basti. Quello che interessa invece nel campo dell’analisi del costume - e del malcostume - del mondo culturale è proprio l’unicità della parabola umana e artistica di questo autore, che un giorno l’aveva spinto a chiedere ironicamente a un amico se conoscesse qualche liberale di lingua spagnola. Perché di peronisti, castristi, chavisti, sandinisti e caudillisti ne conosceva a bizzeffe. Di liberali, manco uno. Proprio per questo riteneva impossibile - e invece… - per uno scrittore che si professasse liberale poter vincere il Nobel.

La sua differenza rispetto alla palude terzomondista stava proprio, come sempre, nelle origini. E cioè nell’aver individuato fin da giovane in Flaubert il suo autore, e in particolare in “Madame Bovary” il suo libro - visse innamorato di Emma Bovary per tutta la vita - e di essere quindi intriso dello scetticismo flaubertiano, della sua visione del mondo, del sovrano disprezzo nei confronti degli esseri umani e della diffidenza antropologica nei confronti di tutto quello che odorasse di massa, di popolo, di gente, di magnifiche sorti e progressive, di fiducia negli uomini, sintetizzata nella figura del “perfetto idiota latino americano”. E al contempo nella fede smisurata, anche se disperata, nell’unica cosa che valga. L’individuo. La libertà. La libertà dell’individuo. Come i più avvertiti avranno già colto, siamo alla blasfemia.

E pure oltre, viste le parole di fuoco con il quale aveva bollato il politicamente corretto - “dittatura del pensiero unico che impedisce il libero scambio delle idee in nome del fanatismo identitario” -, le parole di stima nei confronti di Papa Ratzinger, detestato dai rivoluzionari nannimorettiani di cui sopra, e la solidarietà solitaria (o quasi) nei confronti di Salman Rushdie nel 1989 dopo la fatwa dell’ayatollah Khomeini, poi ribadita dopo il macello di Charlie Hebdo. Cosa c’entrava Mario Vargas Llosa con il pattume culturale antioccidentale che brulica nei nostri media, nelle nostre scuole, nelle nostre università e nelle nostre case editrici? E cosa c’entra questo grand’uomo di destra - che sarebbe anche una cosa seria - con la destra caprona di oggi? Basti rileggere cosa aveva detto nel 2016 dell’attuale presidente americano: “È un pericolo, gli Stati Uniti sono un paese troppo importante per il resto del mondo per avere alla Casa Bianca un pagliaccio, un demagogo e un razzista come Trump”.

Ma il personaggio era fatto così. Provocato sui fondamentali, sui principi non trattabili, reagiva sempre a mani in faccia. Proprio come aveva fatto nel 1976 a Città del Messico, quando al termine di una lite causata non si sa bene se dalla letteratura impegnata, la politica di Fidel o, più probabilmente, la gelosia nei confronti della sua seconda moglie, rifilò un diretto destro a Gabriel Garcia Marquez, facendogli un occhio nero. Che lui sfoggiò per settimane, come fosse una medaglia al valore, da esibire il più a lungo possibile: l’amico del popolo picchiato dal servo dei padroni, o roba del genere.

Mancherà alla cultura uno così. L’altro, probabilmente, un po’ meno.

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