La tragedia che si dispiega a Gaza a causa dell’attacco sanguinario scatenato dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, ha raggiunto ormai proporzioni quasi indicibili. La strage non è ancora finita, le prospettive di una vera tregua sono irrisorie mentre quelle di un allargamento del conflitto sono purtroppo intatte, come dimostra lo spiegamento di mezzi militari che gli Stati Uniti hanno organizzato in Medio Oriente per offrire a Israele un ombrello contro eventuali interventi esterni. Non ci sono quasi più parole per descrivere le sofferenze dei civili, né numeri per tenere il conto dei morti.
In questo quadro, risulta ancor più desolante offerto da quella che siamo soliti chiamare “comunità internazionale”.
Partiamo dall’Onu, dove l’Assemblea generale ha votato una bozza di risoluzione presentata dalla Giordania a nome dei Paesi arabi: testo non vincolante, che ha raccolto 120 voti a favore quando per “passare” ne servivano 128 e che, tra i Paesi occidentali, ha avuto il sì solo della Francia e della Spagna (l’Italia si è astenuta). Il testo premeva per un cessate il fuoco, con il chiaro obiettivo di evitare una punizione ancor più pesante ai danni dei due milioni di abitanti di Gaza. Gli Stati Uniti hanno a lungo criticato la bozza e infine hanno votato contro. Può darsi che la loro sia una posizione preconcetta a favore di Israele ma una cosa è certa: nel testo Hamas e le sue azioni non solo non venivano criticati ma nemmeno menzionati, come pure i 229 ostaggi trascinati in catene all’interno della Striscia di Gaza. Il che dimostra che il mondo arabo da un lato non è politicamente pronto a prendere le distanze dal terrorismo di Hamas (Erdogan addirittura lo considera un elemento di “liberazione” per i palestinesi, ma la Turchia non è un Paese arabo) e dall’altro è tuttora attanagliato dalla paura che l’islamismo possa risorgere e scuotere regimi e società. La lezione del 2011, di quelle Primavere arabe di cui profittarono soprattutto i movimenti radicali, non è stata dimenticata. Al di là di una sete di vendetta che andrebbe bloccata, in questo caso lo sdegno di Israele non è privo di ragioni.
Dopo il voto dell’Onu è arrivata la riunione del Consiglio europeo, dove i capi di Stato e di Governo di 27 Paesi avrebbero dovuto delineare la linea strategica dell’Unione Europea nei confronti della nuova crisi in Medio Oriente che, al di là degli scossoni che imprime a una regione da sempre tormentata, rischia di avere su di noi un impatto disastroso da più punti di vista: mercato delle risorse energetiche, flussi migratori, minacce terroristiche. Dopo giorni passati a discutere di “tregua” (come voleva la Spagna) o “pause” (come preferivano quasi tutti gli altri), il massimo sinedrio politico dell’Europa unita ha deciso di non decidere. Non ha chiesto la tregua (che Israele non avrebbe accettato ma che avrebbe comunque espresso la preoccupazione per la sorte dei civili palestinesi) ma solo una “pausa” umanitaria. E ha proposto l’ennesima conferenza di pace. Insomma, la fiera delle parole.
Intanto, potenze come Russia e Usa sperimentano i nuovi limiti della loro influenza. Il Cremlino parla con Hamas e con l’Iran, senza che il movimento di Gaza smetta di sparare missili o mostri barlumi di ragionevolezza. La Casa Bianca avverte Netanyahu che invadere Gaza sarebbe un rischio e un errore ma il leader israeliano procede imperterrito. Basta dire che non è un’invasione ma solo un‘incursione e Washington si tace. Non dimenticheremo mai ciò che è stato fatto a Israele e a Gaza. Ma sarà bene ricordare anche ciò che non è stato fatto tutto intorno.
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