Shakespeare e la tragedia del potere

La cosa che trovo più scandalosa del caso Cucchi è che mi sembra che ancora una volta facciano tutti finta di scandalizzarsi e di aver scoperto una cosa impensabile cioè una realtà che non si può più far finta di non sapere. Come Abu Dabi ricordate? Tutti che si sentivano in dovere di gridare allo scandalo come se l’utilizzo malato e improprio del potere da parte di alcuni fosse una novità. Quanta ipocrisia. Forse ci servirebbero un bel po’ di retorica in meno e molti più fatti. Ma di questo ne aveva già parlato magistralmente Shakespeare, non ricordo in quale tragedia. Sono passati cinque secoli e non è, ahimé, cambiato un bel nulla.

Ilaria Mascetti


L’esercizio corretto del potere (del potere in generale) lo indicò Erasmo da Rotterdam, prete, filosofo e umanista olandese: «Non ho mai preteso di più: contento della mia carica, ho saputo coprirla in modo tale che la mia persona le ha conferito un maggiore decoro. Cosa, questa, che io considero molto più onorevole che il non prendere a prestito la propria dignità dal lustro di una carica». Purtroppo sono frequenti i casi di comportamento opposto, a ogni livello. Compreso quello che s’è trovato a incrociare il povero Cucchi. Sono seguiti prima l’indifferenza, poi l’ipocrisia, infine scorci di verità: non la conosciamo ancora tutta, ma stavolta sembra che ci arriveremo. E grazie al fatto che un potere dello Stato ha la possibilità di correggere gli errori d’un altro: nella negatività della vicenda, non va scordata la positività dei contrappesi di cui è dotata la democrazia. Ed eccoci a Shakespeare. Sul potere ha scritto in tutte (credo) le sue tragedie, denunciando l’incapacità a governarlo da parte di chi ne è investito. Per esempio nell’”Amleto”, nel “Riccardo III”, nel “Re Lear”. Riccardo è così preso dal delirio d’onnipotenza da smarrire l’esatta percezione della realtà e la sua anima sarà dannata. Shakespeare tuttavia ammonisce che anche chi s’allontana volontariamente dal potere viene punito perché il potere non accetta rifiuti; e lo stesso accade a chi, ricevutolo in assegnazione, si rivela incapace di gestirlo. Riassumendo: il potere, finché si può, è qualcosa da cui stare alla larga perché si rischia d’infilarsi in una stretta dalla quale è impossibile uscire. Ma la civiltà d’oggi lo beatifica, emargina chi l’aborrisce e soprattutto evita di far conoscere la lezione di Shakespeare. Se per esempio si riflettesse sul fatto che il potere distrugge, come nel caso di Amleto e Re Lear, perfino la famiglia, quanti esponenti della classe degli ottimati d’oggi ne conserverebbero una?

Max Lodi

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