Lotta per la vita. E la commozione
travolge il pubblico

Arquino ”Portami a vedere il mare” scuote la platea. In scena un dramma che insegna ad amare l’esistenza e a non dare mai per scontata la fortuna della salute

Le luci della sala si riaccendono, ma sono in pochi quelli che hanno la forza di alzarsi subito, di tornare a parlare con il parente o l’amico con cui si è andati a teatro. Tutti troppo scossi, molti con il magone e gli occhi lucidi.

Magistrale

Perché è così quando si raccontano certe storie che vanno a scavare dentro, che ti ricordano fatti vicini o avvenuti, in cui ti immedesimi, che ti fanno riflettere su quante volte diamo per scontati i piedi, le mani, il camminare, persino il parlare. “Portami a vedere il mare”, lo spettacolo che ha debuttato sabato 18 marzo al teatro Spazio Centrale di Arquino (in replica il 21 e il 23 marzo) non è una “sberla” in faccia agli spettatori, non è crudo, non è violento; tocca il tema della morte e della vita e del filo sottile che le separa e tratta apertamente della lotta per vivere ma lo fa in maniera delicata, eppure così efficace che ti si attacca alla pelle e si insinua nelle viscere tanto da sentire il racconto come parte di te.

Uno spettacolo da dieci e lode sotto tutti i punti di vista: un testo commovente ma non melodrammatico, un’attrice (Viviana Sancassani) che di lavoro fa altro (il medico) ma che, forse proprio per questa sensibilità, riesce ad essere convincente sul palco nel ruolo di una paziente in terapia intensiva, una scenografia che non si risparmia di certo in innovazioni tecnologiche seppure nella sua essenzialità, brani musicali coinvolgenti che fanno sussultare il cuore e una regista (Maurizio Natali) che mostra tutta la sua maturità nel saper portare in scena un argomento non banale e neppure semplice con la maestria e la raffinatezza di un professionista.

Sancassani sul palco è Sara, una maestra elementare, felicemente sposata con Riccardo, madre di un figlio, una «vita perfetta», quando la sepsi la travolge e all’improvviso la fa trovare faccia a faccia con il destino. È il 26 agosto 2015 quando viene ricoverata, una data che – come le successive – viene proiettata su un maxischermo, una delle tre sezioni in cui viene divisa la scena sul palco. A destra un traliccio è il perfetto giaciglio-letto di ospedale dove l’intreccio di tubi di alluminio allude al complesso intrico del nostro organismo.

A sinistra un telo bianco che pende dal soffitto rappresenta la vita cui anelare in una spettacolare danza aerea con la morte. E, poi come detto, al centro il maxischermo, azionato da un motorino, che in posizione verticale è una lavagna multimediale in cui vengono indicati dati, sintomi, patologie e, in posizione orizzontale rappresenta il confine fra vita e morte, fra coscienza e incoscienza, fra mente e corpo.

Di fatto quando Sara entra in coma si alza la nebbia sul palco che avvolge anche gli spettatori perché «andare in coma è come dissolversi», il cuore batte, ma il resto se ne va. Ed è in questo momento che un urlo scarnifica la scena: «Mamma, dove sei?».

Perché di fronte al pericolo, che tu sia a tua volta madre, la prima persona che chiami in aiuto è la tua mamma.

Da qui in poi “Portami a vedere il mare” spiega cosa avviene dentro e fuori Sara e intorno a lei: la «babele di specialisti» e una «officina di cervelli» intenti a «riparare un oggetto che non gli appartiene», infermieri rispettosi e attenti e altri meno delicati che, mentre Sara «galleggia» in una dimensione senza tempo e spazio, come fosse in una bolla d’acqua, discutono su dove andare a mangiare la sera.

Visti da fuori

«Siamo un caso clinico per loro. È difficile vederci prima di tutto come persone? Ma che alternativa hanno? Come sopravvivere? Loro che vedono la morte tutti i giorni …», riflette la protagonista. Sara pensa al suo funerale in un giorno di pioggia («siamo tutti destinati a diventare ricordi», d’altra parte), i medici consigliano di avvisare la famiglia. Eccola la morte sta per arrivare e con il corpo e la mente di Sara – che, fino ad ora, sono state separate – lotta. Qui il pathos raggiunge l’apice nell’altalenante lotta-danza fra vita e morte, nello scandire sonoro dei tentativi di rianimazione per l’arresto cardiaco con le luci fredde che sembrano, esse stesse, non lasciare scampo.

Ma la vita ha la meglio. E davanti allo schermo, ora divenuto di un bianco lucente che ci proietta in un “limbo di pensieri”, mente e corpo si ricongiungono. Finalmente.

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