
Cronaca / Lecco città
Martedì 09 Settembre 2025
«La ’ndrangheta sul Lario è radicata»:
le motivazioni della sentenza
sull’indagine “Cavalli di razza”
L’inchiesta nell’autunno di quattro anni fa portò a un centinaio di arresti per una lunga serie di reati commessi nelle province di Como e Lecco. La Cassazione: ««Gli amministratori locali di alcune aree non disdegnavano di chiedere favori ai boss»
Lecco
«Gli amministratori locali» di alcune aree del Lario «non disdegnavano di chiedere favori» alla ’ndrangheta. A scriverlo, nero su bianco, sono i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza sull’indagine “Cavalli di razza”, che nell’autunno di quattro anni fa portò a un centinaio di arresti per una lunga serie di reati connessi, in particolare, al radicamento della criminalità organizzata per il «condizionamento di un settore dell’economia lecita, quello dei servizi alberghieri e di facchinaggio, generando» il tutto «attraverso l’impiego della forza di intimidazione».
L’indagine era andata a colpire varie zone della provincia comasca, dall’Olgiatese alla Bassa Comasca, dalla Brianza al territorio di Fino Mornasco, arrivando però a coinvolgere anche Lecco. Fra gli arrestati vi era stato anche un quarantenne di Lecco ma domiciliato in Svizzera, accusato di traffico di droga.
Secondo i pm della Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Milano, proprio nell’officina gestita dal lecchese in città sarebbe stato realizzato un doppio fondo all’interno di una vettura poi utilizzata per il trasporto di cocaina. Non solo, era considerata anche abituale ritrovo degli indagati nell’inchiesta. La carrozzeria era poi stata chiusa a seguito di una interdittiva antimafia. Ne era seguita una condanna a sei anni e nove mesi, a fronte di una richiesta di dodici anni di pena.
A riguardo della locale di Fino, comandata da un boss del calibro di Bartolomeo Iaconis (che sta scontando l’ergastolo in quanto mandante dell’omicidio al bar Arcobaleno di Bulgorello di 17 anni fa), i giudici della Cassazione sottolineano «i rapporti con gli amministratori locali» i quali si recavano dal boss e dagli altri associati per chiedere favori «come l’assunzione dei propri figli, consapevoli del rispetto che incuteva la capacità criminale del gruppo diretto da Iaconis».
E dopotutto non è più un mistero, e la stessa sentenza della Cassazione lo sottolinea, che è ormai dimostrato il «radicamento della ’ndrangheta nella provincia di Como», oltre che in quella di Lecco. Un radicamento talmente storico da riuscire a «diffondere all’esterno l’alone dell’intimidazione e della paura derivante dalla chiara percezione dell’esistenza di un sodalizio strutturato e radicato sul territorio».
Una criminalità organizzata che sul nostro territorio vuole fare affari, come dimostra ad esempio la vicenda delle minacce ai dirigenti Spumador per ottenere commesse per la distribuzione di bevande. Quello ai danni della storica azienda era «un progetto ideato e perseguito non nell’interesse di uno o più imprenditori aderenti a un cartello, ma nell’interesse della cosca di riferimento». Questo passaggio racconta molto delle modalità operative dei clan che affondano le radici nel nostro tessuto economico: «Il progetto - si legge in sentenza era diretto a instaurare e mantenere attraverso la forza di intimidazione un vero e proprio regime monopolistico», non già per far guadagnare i singoli, ma per «far conseguire alla cosca ingenti profitti economici» ma pure «il consolidamento del prestigio nel territorio a vantaggio dell’intera organizzazione».
E gli imprenditori condannati, ossia i titolari delle aziende di logistica che minacciavano i dirigenti Spumador, hanno «operato non come imprenditori collusi, ma come imprenditori partecipi dell’associazione mafiosa alla quale si era organicamente legato non solo per finalità egoistiche di guadagno personale, ma per consentire la realizzazione del programma criminosi comune agli associati».
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