E’ cambiata la direzione del negoziato ad Est: per la prima volta da quattro anni a questa parte, non sono più gli occidentali a correre dietro ai russi. Gli americani hanno sbattuto la porta in faccia al Cremlino che si preparava al summit di fine ottobre a Budapest con i suoi tradizionali ermetismi. Stufi del tergiversare di Mosca, Donald Trump e Mark Rubio hanno semplicemente scelto di far saltare il tavolo.
Del resto la coppia Usa non ci aveva fatto una bella figura al precedente summit, quello di Ferragosto in Alaska: di fatto non aveva ottenuto alcuna apertura da parte di Vladimir Putin sull’Ucraina in cambio della passerella con Trump davanti all’opinione pubblica internazionale. Anzi, già ad Anchorage, le discussioni bilaterali riservate, che sarebbero dovute durare 7-8 ore, furono accorciate a poco meno di tre. E poi niente pranzo con le delegazioni allargate, le quali avrebbero dovuto parlare di business e porre le fondamenta di mega-affari.
A Donald Trump delle ragioni storiche e geopolitiche alla radice dell’Operazione militare speciale in Ucraina interessa poco. Lui è attratto dai soldi e dal premio Nobel per la pace. Così, mentre si accordava con i cinesi sulle diatribe commerciali, la Casa bianca ha deciso di picchiare forte. Primo: ha approvato le prime sanzioni contro la Russia dell’epoca Trump; soprattutto quelle dolorosissime contro il petrolio russo. Secondo: ha riaperto dopo oltre un trentennio la questione degli esperimenti nucleari.
L’inatteso colpo subìto da Mosca è stato duro. Nella consueta ricerca del responsabile di tale passo falso il primo della lista è stato il “falco” Serghej Lavrov, che insieme al collega Rubio stava preparando il summit di Budapest. Da oltre un ventennio capo della diplomazia federale, il ministro degli Esteri è stato stranamente assente ad un importante incontro del Consiglio di sicurezza (la vera “sala dei bottoni” russi) e sarà sostituito dal suo vice Oreshkin come capo della delegazione russa all’incombente G20 in Sud Africa.
Ora Mosca, già isolata a livello internazionale, si trova in difficoltà visto che Trump parrebbe essere stato convincente sul nodo petrolio con cinesi e indiani, a giudicare dai rilevanti sconti sul prezzo di vendita applicati oggi dai russi. Lavrov ha al momento pubblicamente espresso la propria disponibilità ad incontrare in qualsiasi modo e luogo il collega Usa, il quale vuole conoscere esclusivamente la data in cui i russi fermeranno le armi. Putin sa perfettamente che solo Trump può tirarlo fuori dal pantano ucraino in cui si è cacciato nel febbraio 2022, ma ha esagerato nel voler imporre le proprie condizioni, non trattabili.
Tutto ciò non significa che la “pace giusta” si sia avvicinata. C’è già il precedente del 1943-45: Teheran, Jalta, Potsdam. Non fidandosi appieno del britannico Churchill e inanellando ingenuità in serie, gli americani consegnarono l’Europa a Stalin. Adesso è diverso. I Ventisette hanno la “golden share” del conflitto ucraino, essendosi Putin dimenticato parte delle sue riserve valutarie in Occidente. Il problema è che l’Ue dovrà stabilire il momento migliore, quando entrare - compatta e in forze – nel negoziato, imponendo non solo una definitiva composizione della tragedia ucraina ma anche un nuovo equilibrio o patto geopolitico nel Vecchio continente.
Resuscitare gli accordi di Helsinki o qualcosa di simile non sarà facile, ma bisognerà provarci. Chiedere garanzie sul sistema politico in Russia sarà inevitabile. Ad imporlo sono lo spaventoso bagno di sangue e i rischi corsi di una Terza guerra mondiale.
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