C’è anche il segreto dell’eterna anzianità

A Jules Renard, autore di quel “Pel di carota” che nessuno sembra leggere più, forse perché mancante del dolcificante della consolazione, ingrediente oggi considerato indispensabile, dobbiamo parecchi buoni aforismi. Uno su tutti: “Vecchiaia è quando si incomincia a dire: Non mi sono mai sentito così giovane”.

Aveva ragione da vendere, Renard. La vecchiaia ci sorprende quando consideriamo con assurda serietà un’impresa evidentemente impossibile, ovvero correre a ritroso nel tempo per ritrovare una condizione che, nel frattempo, la memoria ha filtrato, purificato e infine edulcorato: la giovinezza. Ed ecco che alla vecchiaia si associa allora un elemento patetico che finisce per caratterizzarla e guastare così i suoi già scarsi risvolti positivi. L’illusione di rimanere giovani, evidentemente contraddetta dal decadimento fisico e da quello cognitivo, rende l’anziano pietoso e in ultima analisi ridicolo. La società si aspetta invece che chiunque superi i 65 anni di età, fatto quel che può per tenersi in forma, si faccia da parte e coltivi una disposizione d’animo particolarmente indicata in caso di agonia: la rassegnazione.

Il fatto che l’aspettativa media di vita continui a salire non è del tutto consolante. Non è che si rimanga vivi per più tempo: piuttosto, si resta vecchi più a lungo e non di rado alle prese con malattie neurodegenerative dalle conseguenze mortificanti. Sperare in un destino diverso parrebbe azzardato e a cancellare ogni illusione ci si mette pure il dominio della tecnologia e la sua tendenza a evolversi e a rinnovarsi. Muoversi in sintonia con il mondo significa, oggi più che mai, cavalcare il continuo aggiornarsi degli strumenti digitali e comprendere il linguaggio tecnico a essi connaturato.

Eppure, proprio quando tutto sembra perduto, quando l’analisi dell’invecchiamento non sembra offrire vie d’uscita e il destino, malvagio, pare irrimediabilmente segnato, ecco che laggiù, come all’inizio del terzo atto di un film, qualcuno osa suonare la tromba della riscossa. Si tratta di Stephen Badham, docente di Psicologia all’Università Nottingham Trent, in Inghilterra. Un suo corposo studio, appena pubblicato, ribalta le convinzioni più consolidate su giovinezza e vecchiaia, proponendo un “mondo al contrario” sul quale neppure Vannacci troverebbe qualcosa da ridire. «Spesso diamo per scontato che i giovani siano più intelligenti, o almeno svegli, rispetto agli anziani – scrive Badham -. Tutti ci siamo sentiti ripetere come i grandi scienziati e i matematici prominenti abbiano raggiunto i loro migliori risultati in età giovanile». Ebbene, sostiene Badham, tutto questo non è (più) tanto vero. I suoi studi, largamente statistici, mostrano come «il divario cognitivo tra giovani e anziani stia diminuendo». In particolare, l’intelligenza della popolazione anziana mediamente migliora, o cala meno rispetto al passato, mentre quella dei giovani, laddove si consideri la fascia d’età tra i 18 e i 30 anni, in salita per tutto il Ventesimo secolo, non cresce ormai più di tanto. «Dobbiamo ripensare il significato del diventare vecchi – conclude Badham – e questa è una buona notizia». Non solo, aggiungiamo noi: è una notizia rivoluzionaria. Nel migliore dei casi, alla terza età è attribuita una virtù che sa un poco di giacenza di magazzino – la saggezza -, ma ora, grazie al riscontro fornito da Badham, gli anziani potrebbero rivendicare qualcosa di più: l’intelligenza pura, qualità alla quale spesso si associano creatività, talento, intraprendenza. E’ possibile che in futuro ne vedremo delle belle, ovvero che da questo scontro tra giovani e vecchie generazioni, riequilibrato sul piano dell’arsenale cognitivo, esca infine un mondo culturalmente tutto nuovo. Anche se non va mai dimenticato che, in fondo, la vitale missione della giovinezza è una sola, e tale rimane, anche se oggi – apparentemente – la biologia sembra contraddirla. Una sola e sempre quella: rimuovere il vecchio con il nuovo, a qualsiasi costo e con qualunque mezzo.

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