Di una cosa dobbiamo essere grati alle gemelle Alice ed Helen Kessler: quella di aver fatto piena luce su cosa è in gioco, e dove ci porta, la discussa questione del suicidio assistito. Spazzando via ambiguità, paralogismi e fumisterie argomentative. La loro vicenda ha chiarito che il tema, in fondo, è uno solo: siamo liberi o no di disporre della nostra vita? Siamo liberi o no di suicidarci? S’intende: non buttandoci da un ponte o sotto un treno, ma con l’aiuto dello Stato che ci somministra, gratis, un veleno adatto allo scopo. La questione è tutta e soltanto qui, e la vicenda delle sorelle Kessler lo ha chiaramente mostrato.
A questo punto, tutto il resto diventa secondario. Per esempio le cautele suggerite dalla Corte Costituzionale italiana, che da sei anni invita il nostro Parlamento a legalizzare il suicidio assistito, mettendo però qualche paletto contenitivo a tale legalizzazione (più precisamente, l’esserci di: 1. malattia grave; 2. dolore incontenibile; 3. ausilio di mezzi di sostegno vitale). Ebbene, questi tre paletti regolativi, quand’anche fossero statuiti nella lettera della futura legge, facilmente verrebbero by-passati: per chiedere il suicidio assistito basterà un solo, unico requisito necessario, cioè la libertà della decisione suicidaria (s’intende: capacità di intendere e di volere, assenza di pressioni esterne etc.).
La vicenda delle gemelle lo dimostra. Alice ed Helen – per quanto ci è dato sapere – non erano gravemente malate (salvo che per malattia grave si intenda anche la vecchiaia), non avevano dolori incoercibili, non erano collegate a mezzi di sostegno vitale. Eppure hanno chiesto e ottenuto dal servizio sanitario tedesco il suicidio assistito. Ecco, chiarissimo, il punto di caduta dove andrà a scivolare tutta la faccenda. Ed ecco l’unica, decisiva questione in gioco: la nostra libertà di suicidarci.
Il diritto di disporre della propria vita. Il “diritto alla morte” come ennesima fruttificazione del catalogo (ormai quasi un “menu à la carte”) dei diritti civili.
Se il caso delle sorelle Kessler ci ha quindi ben chiarito la posta in gioco nel suicidio assistito, e la sua inevitabile deriva da caso clinico pietoso a prassi normale e diffusa, possiamo serenamente confrontarci sull’esistenza o meno di tale “diritto alla morte”. Sgombrando il terreno da utilizzi strumentali di casi particolari di persone gravemente malate, molto sofferenti e legate a mezzi di sostegni vitali. Credo che la gran parte dei cittadini italiani sia favorevole al diritto di disporre della propria vita, spegnendola qualora la si ritenesse non più degna di essere vissuta. Lo ha detto molto chiaramente il direttore di Libero, Mario Sechi: l’ultima mano della mia vita la voglio giocare io. Senza necessariamente essere un malato grave: basta essere un po’ stanchi di vivere. Così recita, tra l’altro, una proposta di legge depositata presso il Parlamento olandese (pioniere nel campo della legalizzazione del suicidio assistito fin dal 2002), che prevede appunto la possibilità di richiedere il suicidio clinico, in struttura o a domicilio, per la pura e semplice “stanchezza di vivere”. Cioè la vecchiaia. Non quindi per la presenza di una malattia in stadio terminale, dolori incoercibili, cancro, SLA, sclerosi multipla o altro, ma semplicemente per…“vecchiaia”: decadimento fisico e cognitivo, fatica di vivere, umiliazione di non essere più giovani, belli, performanti, sportivamente tonici e sessualmente attivi, desiderio di non gravare su figli e nipoti, paura del futuro (magari anche angosciati dalla prospettiva di doverlo affrontare da soli, quando si è due gemelli). Tutt’al più la proposta di legge olandese prevede di porre un limite minimo di età per chiedere legittimamente il suicidio assistito per stanchezza di vivere: 70 o 75 anni. Ma in fondo anche questa limitazione di libertà avrebbe poco senso: se “stanco di vivere” lo fossi a 69 anni? O a 68? O a 67?
Se questa è l’opinione decisamente prevalente nella società civile, favorevole al suicidio assistito (il dibattito pubblico suscitato dal caso delle due gemelle sta lì a dimostrarlo), c’è da dire che esiste tutto un altro modo di affrontare l’argomento. Credo largamente minoritario nell’opinione pubblica, ma al quale però mi sento di appartenere. Questo modo argomenta che la vita (la propria come quella degli altri) va sempre rispettata, e non soppressa; e che quindi non può esistere un “diritto alla morte”, o un diritto di disporre della propria vita, perché sarebbe come segare il ramo su cui si appoggia la stessa libertà individuale e la stessa dignità della persona che, col suicidio assistito, si vorrebbero salvaguardare. Propagandato come “conquista di civiltà”, il suicidio sarebbe al contrario un “crollo di civiltà”. Se, di fronte alla vita difficile, si diserta, anziché lottare, difficilmente si saprà incoraggiare a vivere la vita facile. Sarebbe una civiltà dopata dall’illusione di poter scansare gli ostacoli abbandonando il campo. Una civiltà che non sa più affrontare il dolore e la morte, è destinata a diventare afona e incompetente anche sulla felicità e sulla vita.
Attenzione: non è, questa, una visione solo cristiana. È anche l’eco di una grande tradizione di pensiero laico, assertore (da Aristotele a Kant) della disumanità del suicidio. Se poi mi si chiede della possibilità di conciliare il suicidio assistito con la fede cristiana, la risposta è: assolutamente no. Gesù insegna l’umiltà e la povertà di spirito – non il dominio – di fronte al dono della vita; e chiede che, fino in fondo e fino alla fine, si viva la vita nel dono di sé, non nella sua soppressione. Naturalmente poi ci sono i casi tremendi della vita, spesso assurti anche al clamore della cronaca: quelli delle malattie gravissime, dei dolori soverchianti, delle situazioni di enorme pena. Ma per affrontare questi casi possediamo già strumenti efficaci: la terapia del dolore, la medicina palliativa, il rigoroso rifiuto dell’accanimento terapeutico e di ogni trattamento futile, gravoso e inutilmente invasivo. Ma nessuna di queste cose così estreme e orribili – per quel che ci è dato di sapere – era presente nel caso delle gemelle Kessler. Per questo, proprio con la “normalità” del loro suicidio assistito, Helen e Alice ci hanno riportato alla nudità del tema: quello di una civiltà umana chiamata a decidere per il sì o per il no al suicidio. Chiamata a decidere su cosa sia umanità e cosa sia la sua negazione.
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