Giovani morti l’abbraccio del ricordo

Per chi, come chi scrive, lavora con le parole, scritte o parlate, ci sono momenti nei quali si vorrebbe essere muti, perché non esistono frasi adatte ad esprimere il dolore. Quando muore un ragazzo non c’è conforto; anche solo pensare di poter consolare un genitore che perde un figlio è qualcosa di simile a una follia. È possibile stare accanto al dolore dei genitori, essere presenti, non fuggire: ma consolare, mai.

E del resto una delle frasi più stupide che gli esseri umani hanno inventato è il famoso proverbio “muor giovane chi è caro agli dei”: un modo per voltare la faccia dall’altra parte, per trovare una spiegazione disumana a un disumano dolore, per non affrontare il dato di fatto che la morte di un ragazzo è totalmente ingiusta, del tutto assurda, senza significato.

E siccome “è del mondo che sono figli, i figli”, tutta la comunità sente questo strappo, questa violenza, come se tutti avessero perduto un figlio; il paese si risveglia triste, ferito, sente che gli manca qualcosa. Soprattutto, che gli manca un pezzo di futuro.

E anche un pezzo importante di presente. Perché se i ragazzi sono il nostro futuro è anche vero che sono così belli, di una meraviglia così struggente, di una grazia così assoluta che incontrarli per la strada allarga il cuore. E come è allora possibile rassegnarci al fatto che quegli occhi luminosi, quelle mani aperte, quelle guance arrossate non li vedremo mai più?

“Mai più”. Come sembra stonata, a vent’anni, questa espressione. “Non voglio vederti mai più”: ma poi si sa che la vita ci farà incontrare ancora, in un modo o nell’altro. “Non lo farò mai più”, ma comunque c’è sempre la possibilità di ripetere esperienze simili. Con la morte, no. Il “mai più” è tremendamente, maledettamente vero. Almeno su questa Terra, davvero non ci rivedremo mai più

Gioventù e morte non vanno d’accordo: sono due concetti che si respingono, che non vorrebbero mai guardarsi in faccia. Incidenti stradali, overdose, suicidi (le prime tre cause della morte dei ragazzi) ci mettono di fronte tutti i giorni alla smentita di questa polarità; ma comunque sia, la gioventù per noi è vita.

E rimane vita. È sempre commovente vedere i genitori dei ragazzi che hanno perso la vita dedicarsi a fondare associazioni, a raccogliere fondi, a creare dibattiti sul motivo della loro perdita: gruppi di ascolto sulle dipendenze, iniziative sulla sicurezza stradale, creazione di fondi per la lotta alla leucemia infantile. Quanti genitori eroi che invece di chiudersi nel loro dolore (come avrebbero avuto tutto il diritto di fare, e nessuno osi criticarli) hanno aperto le porte alla speranza. Non per mio figlio, ma per i figli degli altri. Perché è del mondo che sono figli, i figli

Una cara amica che ha perso un figlio diciassettenne ha scritto una poesia intitolata “il mio orologio ideale”. La poesia è composta di due sole parole: “toc, tic”. Il desiderio di far tornare indietro il tempo, di far ruotare la Terra in senso contrario come in un film di Superman, ci corrode dal di dentro, quando una perdita così atroce ci chiede il conto di tutto il nostro dolore. Sapere che non è possibile, accettare che l’orologio continua nel suo corso inesorabile, significa anche sapere che possiamo insieme parlare di questo dolore; e celebrarlo.

Perché se è vero che una tragedia come questiaci lascia muti, è anche vero che non esistono solo le parole per comunicare. Un abbraccio, una carezza, uno sguardo che si fissa negli occhi dell’altro; modi per stare insieme, per resistere insieme alla lacerazione. Modi per capire che la morte di un ragazzo è assurda se considerata dal punto di vista di un ventenne come da quello di un sessantenne, di un analfabeta come di un laureato; ma anche che questa assurdità possiamo provare a viverla insieme, stando stretti tra noi, abbracciando i nostri ragazzi.

Davanti al “mai più” irreversibile della morte di un ragazzo c’è il debolissimo “ancora” del ricordo, della nostalgia, della vita nonostante tutto.

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