I posti di lavoro creati dalla guerra

La Giornata mondiale dell’alimentazione alla Fao è stata occasione per rimarcare il vero problema dell’umanità: il diritto, come persone, a vedere soddisfatti i bisogni primari, la fame in primo luogo.

Non è morale usare la sopravvivenza alimentare di un popolo come arma di guerra. Il passo verso lo sterminio programmato è breve. Di questo sia il Papa sia il presidente Mattarella sono consapevoli e i loro appelli scuotono la coscienza di milioni di cittadini in Italia e all’estero. E tuttavia l’attenzione sembra rivolta ad altro. Basti scorrere gli indici di Borsa per capire dove il denaro muove in questo frangente storico. Un’azione di Rheinmetall, la più grande industria di armamenti d’Europa, costava 37 euro dodici anni fa, adesso vale più di 2mila euro. Gli Usa spendono di più ma le società europee vanno meglio in Borsa. Compresa l’italiana Leonardo. Certo le commesse per l’Ucraina e il Piano di riarmo degli Stati nazionali hanno creato una corsa agli armamenti e quindi ritorni negli investimenti finanziari.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 le azioni alla Borsa di Tel Aviv sono schizzate verso l’alto. Si dovrebbe pensare al contrario in un Paese in guerra, ma la possibilità di lucrare sui vantaggi di una vittoria a spese del popolo palestinese induce gli uomini di affari ad investire nel consolidamento militare e nelle prospettive di ricostruzione. È un mondo capovolto che tuttavia ha una sua logica. Nel caso tedesco, con un piano di riarmo di quasi mille miliardi di euro al 2030, la Germania si avvia a diventare la prima potenza militare in Europa e fra le prime al mondo. Il tutto in un Paese dove fino al 2022 la sola parola guerra spaventava l’opinione pubblica e che aveva trovato il suo equilibrio in un’economia di pace, dove l’anelito incessante ad essere primi trovava rispondenza nell’eccellenza manifatturiera e in particolare nell’automobile.

È di questi giorni l’annuncio della dismissione di manodopera per oltre 15mila posti di lavoro solo per Volkswagen, seguita a ruota da Bosch che da fornitore di componenti automobilistiche è il primo a soffrire la crisi dell’auto. Il servizio di leva viene lentamente reintrodotto in forma per ora facoltativa-incentivante ma il dibattito si è già spostato sulla coscrizione obbligatoria , senza che nessuno gridi allo scandalo.

Il ritardo nelle componenti elettroniche delle batterie, nel complesso di ricerca che ha portato gli Usa a diventare monopolista nel trattamento dati, nei social, nei satelliti e nel controllo dello spazio, si compensa in Germania sul piano militare all’insegna di carri armati invece di automobili. Come dicono gli addetti ai lavori, si tratta pur sempre di manufatti, anche se la destinazione è diversa. Ecco perché coloro che sono licenziati dalle case automobilistiche possono rientrare dalla finestra dell’industria degli armamenti. Basta un corso di riqualificazione e il gioco è fatto.

Se il mondo vuole la guerra, allora anche la Germania c’è. Il 15,5% della popolazione tedesca, all’incirca 13 milioni di persone, è a rischio povertà, i cosiddetti “mini job»” imperversano e se anche il salario minimo è di 12,28 lordi all’ora, il risultato finale è un’eterna precarietà. Il prezzo pagato volentieri alla globalizzazione, quando il futuro appariva roseo con gas russo a prezzi stracciati e un mercato cinese dove piazzare i propri prodotti. Ma il sogno è finito in Germania, quanto in Italia dove i costi si vedono nell’indebolimento del ceto medio.

Le famiglie povere in senso assoluto nel 2024 sono 2,22 milioni. In dieci anni il numero delle persone in povertà assoluta è aumentato di circa un milione e mezzo. Ecco perché la guerra non fa più paura. Produce posti di lavoro. Leonardo per i manufatti si affida ai tedeschi e si specializza nella cybersecurity. Vale in guerra e in tempi di pace.

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