
Da settimane il cuore (di pietra) della politica nazionale ruota attorno all’equazione “più armi, meno sanità”, che a me suona stonata, impropria, propagandistica, cinica, offensiva e oltraggiosa.
I due temi non sono ovviamente paragonabili. Viaggiano su binari lontani e paralleli, destinati a non incontrarsi mai, neppure con le convergenze di Aldo Moro.
Voglio occuparmi di sanità, che è la mia tazza del té (da appassionato e ipocondriaco) soprattutto perché è da decenni che si annunciano e abbozzano riforme in materia, di ogni colore, che non scalfiscono né la struttura del sistema, che va così deteriorandosi e neppure ce la fanno ad accorciare le liste d’attesa, con i Pronto soccorso che spesso degradano a infermerie da campo, gironi danteschi, parcheggi intasati. Sul “riarmo” e il 5 % del PIL non svicolo, ma mi limito a osservare che la difesa europea è diventata urgente da quando la prospettiva di una Terza guerra mondiale non è più un esercizio teorico, ma è piombata sui tavoli delle Nazioni e ha trasformato i telegiornali, i talk e i quotidiani in dispacci dal fronte. Per tacere delle migliaia e migliaia di morti allineati in una teoria infinita che infuria là dove si combatte, nelle strade, nelle case, nelle città e negli ospedali.
Orrore, orrore, orrore. Da sempre evito con cura di attingere al lessico bellico anche nelle metafore (bomba d’acqua, tornare a bomba, Tomba la bomba) e lacerato dalla strage degli innocenti proibirei ai bambini di giocare con i soldatini. Ma perché un Governo deve scegliere tra mitra e bisturi? La vita è sacra in pace e in guerra e va tutelata costasse l’ultimo centesimo del bilancio dello Stato, affossato da quel debito pubblico che impone politiche austere e restrittive, in un Paese nel quale tuttavia gli sprechi abbondano, spesso fin sulla soglia del carcere e le opere pubbliche faraoniche e incompiute affrescano una fabbrica del Duomo permanente. Voglio spendere un elogio per il cambiamento del test d’ingresso alla facoltà di Medicina che da oltre vent’anni angosciava migliaia di studenti, tarpando le ali a vocazioni sanitarie e soprattutto non fornendo la platea dei medici necessaria per garantire il diritto alla salute da Aosta ad Agrigento. Non vi sarete certo dimenticati le stagioni drammatiche del Covid quando di altro non si parlava, tra sfinimenti e umane tragedie, se non di investire sulla sanità per attrezzare l’Italia davanti a future catastrofi e alle decennali carenze messe in luce dall’emergenza. Dall’ultimo infermiere al luminare acclamato, era tutto un fiorire di epinici, di inni agli eroi moderni di una comunità nazionale mobilitata per assistere i più deboli con i farmaci, l’assistenza domiciliare e la pizza d’asporto recapitata in corsia.
Oggi, se torniamo a fare i conti con il quadro pre pandemia, ci accorgiamo che i disagi, le disparità, il dissenso crescono a ogni latitudine. Davanti alla tecnologia sempre più sofisticata e alle cosiddette eccellenze che non si possono negare, cosa raccontiamo al cittadino che si vede fissare un intervento chirurgico a un anno dalla diagnosi? Succede a Reggio Calabria, ma anche a Lecco. E’ un male cronico e ve lo dimostro: a inizio Terzo millennio mio padre novantenne venne operato di cataratta all’occhio sinistro e, al momento delle dimissioni, gli fissarono l’intervento al destro per il 3 di marzo. Era il 10 gennaio e lui li ringraziò con un sorriso. Poi con l’occhio non bendato s’accorse che si trattava dell’anno successivo. Andò su tutte le furie e si allontanò sbattendo la porta. Quando tentai, attraverso le solite conoscenze, di correggere il tiro, comunicai al vecchio Calvetti che avrebbero rimediato anticipando di sei mesi l’appuntamento. Mi appese il telefono in faccia e da solo in treno si recò al San Gerardo di Monza dove trovò immediata risposta. La cronaca di ogni giorno fornisce una galleria di magagne e di assurdità al limite del grottesco con il risultato che fioriscono le strutture private e anche l’orgogliosa testardaggine di mio padre non troverebbe accoglienza. Come dire, siamo tutti sulla stessa barca e se è vero che dal sud vengono ancora a frotte pazienti in Lombardia, non c’è la certezza che un malato di Maggianico trovi al Manzoni una risposta rapida ed efficace. Va da sé che davanti a uno sfacelo generale è persino ozioso spulciare nelle dinamiche degli ospedali vicino a noi, anche se confesso che nei miei quotidiani incontri nelle vie del centro fatico a contare le segnalazioni su esempi di malasanità e in alternativa sulla viabilità.
E tanto per chiudere in bellezza non mi faccio una ragione del dimezzamento di camere, reparti e sale chirurgiche a luglio e agosto per smaltire il piano ferie degli operatori. Purtroppo le malattie non vanno in vacanza e ho sempre ritenuto che una razionale programmazione potesse evitare questa sorta di black out estivo. Insomma, non c’è arma che possa sconfiggere virus e batteri che ammorbano l’organizzazione sanitaria. Siccome detesto il fascio e l’erba che lo compone, voglio riconoscere al direttore del Manzoni e agli operatori impegno, passione e responsabilità ma mi permetto di osservare che se la missione e la strategia di fondo hanno come obiettivo la prevenzione, occorre coinvolgere i cittadini e convincerli di un cambio culturale, ma se li trovi spazientiti per piccoli guai quotidiani si faticherà a renderli protagonisti attivi del progetto.
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