Il calcio delle donne e il rigore di Mattarella

«Dalla preistoria è sempre stata più difficile per le donne ogni cosa». Boom! Nemmeno un rigore nel sette della porta. Sergio Mattarella non usa giri di parole. Lo dice così, con la sobrietà di chi non deve conquistare applausi come fanno molti politici per lusingare il gentil sesso, ma ha il dovere di indicare la verità. E lo fa davanti alla Nazionale femminile di calcio, accolta al Quirinale dopo un Europeo disputato con grinta (virtù femminile checché se ne dica), talento e determinazione (e un po’ di sfortuna). Perché c’è modo e modo di dirlo, e Mattarella – come sempre accade – lo dice da presidente. Senza retorica da festa dell’8 marzo, senza mimose impolverate né medaglie d’oro al valor femminile.

Un discorso che diventa – come sempre capita con l’inquilino del Quirinale – molto più di una cerimonia sportiva. È una dichiarazione politica. È un faro puntato su una diseguaglianza antica, strutturale, mai del tutto rimossa.

Le ragazze del calcio hanno conquistato il rispetto del Paese col sudore, con le parate, con i rigori. Eppure, basta il confronto con la visibilità riservata agli Azzurri per ricordarci quanto la strada resti lunga. È la stessa strada che percorrono le donne che aspirano a una cattedra universitaria, a una sala operatoria, a una direzione d’orchestra, a una presidenza d’azienda. È il cosiddetto “soffitto di cristallo”: trasparente, ma resistente. Invisibile, ma invalicabile.

Lo troviamo nel gap salariale che ancora separa donne e uomini con la stessa qualifica, nelle resistenze a una piena leadership femminile: in politica, dove anche se la premier si chiama Giorgia le ministre non sono molte; nei media, dove le esperte vengono interpellate meno dei colleghi maschi; nei settori amministrativi della Chiesa, dove non sono molte le figure apicali nonostante papa Francesco, che ha inserito molte figure femminili nei dicasteri vaticani, dicesse che “quando ci sono le donne, le cose vanno meglio”. Perfino nella cultura e nel cinema, dove la regista è “una rarità”, non la norma.

La frase del presidente sull’origine remota della disparità è potente. Evoca un retaggio sedimentato nei secoli, un ordine del mondo costruito a misura d’uomo – maschio. Ma non è una condanna, è un monito. Se persino lo sport, uno degli ambienti più virilizzati della società, può diventare un luogo di emancipazione, allora è possibile anche altrove. Basta volerlo. Basta sostenerlo.

E qui la politica, quella vera, dovrebbe raccogliere il messaggio del Quirinale e farlo proprio. Perché la parità non è un favore, è un diritto. E lo Stato ha il dovere di garantire che diventi realtà. Come? Con investimenti nello sport scolastico e giovanile, dando pari dignità alle competizioni femminili; con leggi che favoriscano l’occupazione stabile delle donne, e che puniscano le discriminazioni salariali e di carriera; con un sistema di Welfare che consenta alle madri di non essere penalizzate; con una cultura che smetta di raccontare le donne come “eroine eccezionali” solo quando fanno bene un lavoro che agli uomini viene naturale.

Le Azzurre, dice Mattarella, che non si è perso una loro partita, hanno mandato un messaggio alla società. Hanno mostrato che «si è fatta molta strada» (ormai in certe categorie le donne sono la maggioranza, come la magistratura), ma che «c’è ancora molto da fare». Non è retorica, è realtà. Non basta festeggiare le atlete quando vincono, occorre garantir loro strutture, visibilità, contratti equi. Non basta applaudire le dirigenti quando conquistano un vertice, serve aprire tutte le porte. NNon basta citare l’articolo 3 della Costituzione, bisogna applicarlo ogni giorno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA