Il problema della natalità, un’amnesia non solo politica

La demografia di un Paese è il suo destino, recita un vecchio adagio, tra i più difficili da confutare. Un detto che, nel caso dell’Italia, può apparire perfino riduttivo, se al termine «destino» attribuiamo - erroneamente il senso colloquiale di «succedersi degli eventi futuri». La demografia, infatti, sta già influenzando con forza quasi tutto quello che accade oggi nel nostro Paese. È quanto emerso dalle nette parole utilizzate dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, durante la sua audizione parlamentare sul tema.

Il responsabile di Via XX Settembre ha illustrato il calo della popolazione che attanaglia il Paese, scandendo giustamente il dipanarsi delle sue conseguenze nel tempo. Utile, per esempio, l’osservatorio scelto delle dichiarazioni dei redditi: da questi dati emerge come «nel 2023 il numero di contribuenti con almeno 65 anni di età è stato pari alla metà di tutti i contribuenti con meno di 65 anni, contro il 41% registrato nel 2004». Un cambiamento reale e potente in corso, altro che fantascienza. Per rendersene conto si può assumere anche un altro punto di vista, quella delle scuole: «Il declino demografico - ha continuato Giorgetti - ha determinato già una rilevante perdita di studenti: tra l’anno scolastico 2018/19 e 2022/23 si conta una riduzione del 5,2% degli studenti».

Se dall’attualità ci spostiamo al futuro a breve termine, gli squilibri evolveranno addirittura in modo rovinoso. A fronte di un lieve incremento della popolazione nel Nord Italia (+1,5 per mille annuo), si registrerà un lieve calo al Centro (-0,9) e un più marcato decremento nel Mezzogiorno (-4,8). Figurarsi cosa accadrà nel mediolungo periodo: al Sud la popolazione potrebbe calare di 3,4 milioni di abitanti entro il 2050 e di quasi 8 milioni entro il 2080.

Le conseguenze sono radicali, fin da subito, per lo spopolamento delle aree interne, in un circolo vizioso che le renderà sempre più inospitali. Poi, col passare di altro tempo, gli stessi fattori demografici avranno «implicazioni per la sostenibilità dei conti pubblici», ha ricordato il successore di Quintino Sella. Non solo, come si ripete spesso, per il welfare e le pensioni in particolare, ma per tutta una gamma di servizi che oggi diamo per scontati - inclusa la Sanità pubblica - e che domani potranno dover essere ridimensionati, peraltro proprio quando diventeranno più necessari per una popolazione mediamente anziana e con qualche fisiologico «acciacco» in più.

Da qui la denuncia di Giorgetti, che sugli effetti del declino demografico aveva già messo in guardia nel suo ruolo di ministro: «Tutta la classe politica ha presente» il problema, ha spiegato, «ma tende deliberatamente ad accantonare. Chiunque faccia politica non può non rendersi conto di quello che sta accadendo, ma per tutti sicuramente non è il primo, secondo o terzo tema della propria attività e azione politica. Non essendo il primo tema per nessuno, non viene trattato». Il nodo della questione demografica, prima ancora delle risorse pubbliche per asili nido e assistenza agli anziani, è proprio questo: quale ordine di priorità le attribuiamo rispetto alle altre prove che abbiamo di fronte? Se non collochiamo la bassa natalità al primo posto delle nostre preoccupazioni, vuol dire che comunque ne stiamo sottovalutando le conseguenze.

Riconoscere che il declino demografico sia oggi la vera urgenza del Paese, però, non dovrebbe essere soltanto compito della politica. Se la sfida è di portata così grande, infatti, non esiste decisore pubblico che possa da solo sobbarcarsi gli sforzi per farvi fronte. A meno di non credere nei poteri taumaturgici di uno Stato onnisciente e onnipotente, fenomeno che - per fortuna - non esiste in natura e in nessun campo della vita umana. E allora tutta la società, nelle sue varie articolazioni, dovrebbe ripensare l’ordine delle proprie priorità. In questo senso fanno ben sperare iniziative come quella presentata a Roma dalla Fondazione per la natalità, dal Forum delle associazioni familiari e dall’Osservatorio Ethos dell’Università Luiss. L’idea è di compilare un «Family Index» che consenta di valutare l’impatto delle politiche aziendali su natalità, genitorialità e benessere familiare. La diffusione di un simile strumento potrebbe innescare una competizione virtuosa tra le imprese private e pubbliche del nostro Paese, evitando che il welfare aziendale si limiti a rincorrere mode passeggere e facendo sì che invece si concentri su un problema esistenziale - in fin dei conti - per le stesse associazioni di uomini e donne che sono le imprese. Perché se già oggi, in ragione dell’eccessivo rarefarsi dei giovani, si fa fatica a garantire la naturale coesistenza - e poi il succedersi - di generazioni diverse nei posti di lavoro, la nostra società è condannata a diventare sempre meno creativa e produttiva. E presto diventerà lezioso qualsiasi dibattito sulle risorse in più da assegnare alla transizione ecologica o a quella digitale, fenomeni che possono muoversi soltanto sulle gambe di uomini e donne in carne e ossa.

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