IL PROBLEMA
MIGRANTI
E LA PAURA
DEGLI ITALIANI

Ogni tanto sarebbe opportuno farsi una domanda: cosa pensano degli italiani gli stranieri che vivono in Italia? Si tratta di un discorso delicato, finanche scomodo, perché esiste una parte del paese a cui piace giudicare ma non accetta facilmente di essere giudicato. Probabilmente se uno straniero ci dicesse che siamo un popolo razzista, molti italiani si stupirebbero, qualcuno si indignerebbe e qualcun altro lo inviterebbe a “tornarsene a casa sua”. La vezzosa rappresentazione degli “italiani brava gente” é spesso servita per occultare l’esistenza di un “sentimento” che, come un fiume carsico, ha sempre attraversato la nostra società: fuor di metafora, ci riferiamo alla ostilità nei confronti degli immigrati. Si badi, non c’è nulla di ideologico in questa ostilità ed è per questa ragione che parliamo di “sentimento”, di un moto dell’animo sempre più diffuso di cui sarebbe opportuno cogliere cause e implicazioni.

Fino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile discutere di simili argomenti in un paese, come l’Italia, in cui il vero problema era rappresentato dall’emigrazione. Ora accade il contrario e ne siamo spaventati. La globalizzazione ha provocato quello che Ulrich Beck ha definito un “dramma cosmopolitico” che si fonda sul dato inedito di una profonda interdipendenza di tutta l’umanità che nessuno Stato è in grado di arginare. Si pensi a due “entità sovranazionali” come l’emergenza climatica e la finanza.

Da questa impotenza degli Stati nasce il senso di impotenza del cittadino che ha smesso di credere nella politica rivelatasi incapace di migliorare le sue condizioni materiali: nulla di più pericoloso per una democrazia liberale. Questo é il contesto nel quale va collocata la questione dei migranti che, per il nostro paese, rischia di trasformarsi in un pericoloso detonatore sociale a causa dell’incapacità dell’Europa di gestire un fenomeno al quale é stato stolidamente attribuito un carattere emergenziale. Non é così, come i fatti stanno dimostrando. Per queste ragioni, occorre abbandonare quello che schema che si fonda semplicisticamente sulla contrapposizione tra il “buonismo” dell’accoglienza e il “cattivismo” dei respingimenti. In quest’ottica, ci preme fare una riflessione più ampia in grado di superare questa dicotomia nel tentativo di dimostrare un preciso tratto identitario degli italiani che tendiamo troppo spesso a sottovalutare.

Partiamo da una verità storica incontrovertibile: si può costruire il consenso anche attraverso la costruzione artificiosa di un nemico. Si tratta di un vecchio trucco di cui la Storia propone un ampio florilegio con la costante che il nemico per antonomasia resta sempre lo “straniero”. Già, lo straniero, l’“extraneus” che viene sempre guardato con sospetto per la sua diversità e per la sua alterità. Risulta, tuttavia, interessante riflettere sulle peculiari modalità con cui viene rappresentato lo straniero che, nel mondo occidentale, viene percepito come una minaccia alla nostra identità solo se è un indigente. Infatti, se é ricco, lo straniero viene blandito e celebrato al punto da perdonargli tutto ciò che non viene perdonato al povero: il colore della pelle, la religione, il cibo, il vestiario, perfino la violazione della legge. Questa è la “candida” prova che non siamo un popolo razzista.

Ma sarebbe lecito chiedersi se non siamo ancora peggio, cioè, se non siamo un popolo classista. Infatti, il razzista disprezza solo alcuni popoli; il classista, di contro, disprezza universalmente tutti i poveri. Nel disprezzo della povertà non ci sono confini, non ci sono Stati, non ci sono nazioni. Quanto sta accadendo nella cultura occidentale dimostra che populismo e xenofobia, che spesso vengono equiparati, rappresentano costitutivamente due cose diverse. Il populismo non è la difesa dei poveri, né è l’esatto contrario perché rappresenta lo scontro tra élite emergenti e il vecchio ordine costituito.

Il populismo è lo strumento con cui si realizza la “circolazione delle elite”, il loro ricambio imposto dalla storia. Ora ci appare più chiaro il pensiero di Pareto quando sostiene che “la storia è un cimitero di aristocrazie” che hanno la capacità di contrapporre il povero al povero. Si tratta di temi che la politica cerca accuratamente di eludere: molto meglio raccontare la favola di un Occidente spensierato e ospitale, gradito ai grandi ricchi del pianeta che ci piace “accogliere”, loro sì, e magari lusingare alla nostra maniera, con quel goffo servilismo dei servi arricchiti, complessati e spocchiosi. I ricchi portano denaro, i poveri non hanno nulla da offrirci se non le loro catene. Ammettiamolo, esiste una parte dell’Occidente che ama i ricchi e disprezza i poveri. Anche da questo si capisce perché il vento della Storia volge ad Oriente.

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