Incertezze e ritardi: scuola da riformare

Occuparsi di scuola a due passi da Ferragosto è come dissertare di vendemmia a Pasqua e di Pulcinella a Natale. Sulla carta. In realtà se ci butti un occhio ti accorgi di essere in ritardo.

A sollecitare la riflessione, il titolo di un articolo del nostro quotidiano che fotografa lo stato dell’arte delle scuole lecchesi in prospettiva dell’anno che verrà e che, tanto per capirci, aprirà tra poco più di un mese: “Quattrocento posti in attesa di nomina”.

Il pezzo ben documentato è corredato da una tabella dalla quale si evince che, fino a fine 2025, saremo alle solite nei nostri istituti, con un via vai di supplenti, con ore buche che si affastellano e poi, a fine anno, le promozioni a gogò perché in questo ambaradan, di bocciare nessuno ha più il coraggio.

Approfitto per sottolineare, come di recente ho già scritto, che a me l’equazione riarmo-sanità-scuola fa orrore e la trovo demagogica, propagandistica e impropria. E lo affermo sul filo della cronaca, non in base a convinzioni politiche e sussulti pacifisti. Scuola e sanità sono patologie croniche del nostro Paese da mezzo secolo mentre il dramma bellico si pensava estinto, almeno in Occidente, ed è invece scoppiato sotto casa e lo scenario va mutando ogni giorno tra apocalisse e sterminio di bambini.

Ma non siamo cresciuti con il paradigma, rinverdito a ogni piè sospinto, che la civiltà di un Paese si misura dalla qualità e dal livello di scuola e sanità? Non siamo certo qui a negare le eccellenze nell’uno e nell’altro campo ma quando a scadenza fissa leggo che due o tre università italiane sono tra le prime in Europa, a me, invece di pensare all’alloro, viene in mente il cilicio delle migliaia e migliaia tra operatori e studenti che ogni giorno devono superare una caterva di ostacoli. Il Politecnico lecchese è un fiore all’occhiello. E chi lo nega. Ma se poi a un tiro di schioppo la piscina del Parini è chiusa da decenni il bilancio volge al rosso.

Anche perché non c’è programma elettorale che alla voce “scuola” non appaia la irrinunciabile necessità di allungare il tempo almeno fino alla terza media per poter offrire attività teatrali, musicali, sportive, potenziamento delle lingue, corsi di recupero, assistenza nei compiti, una collezione di buoni propositi destinati poi a finire nella famosa vasca senz’acqua.

E che dire della riduzione del numero degli alunni per classe, in nome di una preparazione più accurata e personale, se poi le procedure per arruolare insegnanti, specie di sostegno, sono così contorte e farraginose che, al di là del ministro, la realtà poi apparecchia sulle cattedre dei nostri figli e nipoti un valzer di docenti che ruotano alla stessa velocità dei panini di un fast food?

Nella nostra provincia si rischia di essere ingannati dalle pagelle traboccanti di nove e dieci che nascondono però le magagne di un sistema a questo punto irriformabile.

Ma lasciamo fuori i genitori da questo abbozzato affresco estivo? Non sono molti di loro che sognano per i lori pargoli lodi, lodi e lodi e sono pronti ad azzannare dirigenti e insegnanti al primo voto o giudizio non commendevole, quando non a ricorrere al Tar contro bocciature ritenute ingiuste, dimenticando che per casa girano sfaccendati divanisti con il telefonino incorporato?

Non rimpiango certo la Dora Baltea e la Dora Riparia, il trattato di Campoformio, le Odi barbare del Carducci, monomi e polinomi, magari conditi con qualche congiuntivo sbagliato dal docente, come quella che capitò a mia figlia che usava “stesse” nello scritto ma “stasse” nel parlato.

Va da sé che il quadro che ne esce è a tinte fosche e che non possiamo risolverla in un derby tra insegnanti e genitori perché le radici del male sono assai più profonde, ragione per la quale non ci riesce di vedere un baluginio oltre le lavagne sempre più nere. Ma non è che siamo noi, sprofondati in un pessimismo cosmico, incapaci di cogliere la sottile lezione di vita e di civiltà che la scuola italiana regala ai suoi discepoli? Forse dimentichiamo ciò che vale anche per la sanità e cioè che è costume al nostro borgo di tirare prima la freccia e poi disegnare il bersaglio.

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