La libertà di espressione non si affida a un social

Il 5 luglio 2022 la Commissione europea ha emanato il Digital Service Act, la legge sui servizi digitali e sul mercato digitale che mira a creare uno spazio più sicuro in cui siano tutelati i diritti fondamentali degli utenti e si creino condizioni di parità per le imprese.

In particolare, la legge propone una nuova cultura della prevenzione dei rischi sistemici: dalla disinformazione, ai contenuti illegali, sino alla riduzione del grado di violenza che caratterizza la rete. Un’attenzione specifica è riservata all’hate speech, espressione tradotta in italiano con la formula “incitamento all’odio”, che, secondo la giurisprudenza americana sta a indicare “un particolare tipo di informazione che si serve di parole ed espressioni che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza, nonché di incitare al pregiudizio e alla paura verso una persona o un gruppo di persone accomunate da una etnia, orientamento sessuale, politico, religioso o disabilità”.

Il legislatore europeo nella composizione del Digital Service Act è partito dalla considerazione che “l’ambiente dei social network ha indubbiamente un potere di diffusione e di pubblicità dell’odio ben maggiore rispetto ai media tradizionali e che, una volta trasmesse in rete, le espressioni d’odio hanno una notevole capacità di persistenza e di divulgazione”.

Fino ad oggi l’hate speech è stato trattato in modo non uniforme dai vari social. YouTube lo vieta esplicitamente in quanto inteso come linguaggio offensivo di tipo discriminatorio. Facebook lo vieta, ma ammette messaggi con “chiari fini umoristici o satirici”. Chi non prende in alcuna considerazione l’hate speech è Elon Musk, patron della notissima piattaforma X che nel marzo del 2023 ha inglobato Twitter. Musk si sta addirittura sempre più proponendo come promotore del free speech, elevandosi a paladino della libertà di espressione contro ogni tentativo di censura e d’imposizione di pensiero unico. Quando è entrato in vigore il Digital Service Act Henna Virkkunen, vicepresidente esecutivo della Commissione europea per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia ha dichiarato: «Stiamo prendendo molto seriamente l’applicazione del Dsa».

In realtà, un freno all’applicazione della legge è posto dallo stesso Parlamento europeo, ove si è aperto un acceso dibattito che sta evidenziando una profonda frattura tra gruppi di centrosinistra, i quali ritengono che la nuova normativa europea protegga la libertà di espressione online dal rischio della manipolazione dell’informazione, e i crescenti gruppi di destra, strenui sostenitori di Musk e difensori del free speech. Pur in presenza di questo clima poco favorevole, la Virkkunen ha ribadito l’intenzione di portare avanti accurate indagini sulla conformità o meno delle grandi piattaforme al Dsa: «I nostri team lavorano a pieno ritmo. Intensificheremo il numero delle squadre che si occupano del Dsa ed entro la fine del 2025 arriveremo ad un organico di 200 persone». Immediata la risposta delle destre, anche di quelle italiane. Nicola Procaccini, capogruppo dei Conservatori e Riformisti europei e braccio destro in Europa di Giorgia Meloni, ha giudicato l’azione della Commissione come indirizzata soprattutto «a ostacolare la perdita di dominio politico sulle piattaforme social». Susanna Ceccardi, rivendicando il voto contrario della Lega al Dsa, lo ha definito come «una clava nelle mani degli oligarchi dell’Ue».Di fronte a questo scenario, che rischia di squilibrare la nostra “cittadinanza digitale”, la riflessione che si impone è che la linea di confine fra i due diritti entrambi meritevoli di tutela - la libertà di espressione da un lato e la tutela delle vittime di espressione d’odio e fake news dall’altro - non può essere individuata da un social network, specie se assai potente come X, ma da un’istituzione come la Commissione europea che è chiamata a rispondere ai cittadini delle proprie azioni.

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