La violenza di strada scambiata per opinione

C’è qualcosa di antico e marcio, quasi un riflesso degli anni di piombo, in quello che è successo venerdì scorso a Torino durante una manifestazione Pro Pal. Un centinaio di manifestanti (36 poi i soggetti identificati), alcuni a volto scoperto, altri con un passamontagna, si stacca dal corteo e decide che la redazione de La Stampa è il nemico da colpire.

Entrano, imbrattano i muri con scritte discriminatorie, rovesciano libri, giornali, computer, scrivanie. E scandiscono il loro motto che sa brigatismo rosso – “giornalista terrorista sei il primo della lista” – proprio nel giorno dello sciopero nazionale per un’informazione libera, che non è un dettaglio ma un’aggravante.

Poi, nelle ore successive, in margine a un evento romano dedicato a Gaza, la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese condanna l’assalto, sì, ma ci mette sopra un’aggiunta che stona come un’unghiata sulla lavagna: sarebbe anche un «monito» ai giornalisti, dice, perché tornino a «fare il proprio lavoro» con fatti, analisi, contestualizzazione.

Ora, la parola monito – lo ricorda perfino il dizionario Treccani – significa richiamo al dovere e alle proprie responsabilità.

E non c’è nulla di più lontano dal dovere che una violenza squadrista. La violenza non richiama: intimidisce. Non ammonisce: colpisce. E dunque l’uscita della relatrice è fuori luogo, o peggio, fuori fuoco.

Ma Albanese sbaglia pure il bersaglio. Forse non ricorda – o non sa – che nel 1977 un vicedirettore de La Stampa, Carlo Casalegno, è stato assassinato dai terroristi rossi per aver difeso, con coraggio, la libertà d’informazione. E venendo ai nostri giorni, il quotidiano diretto da Andrea Malaguti ha raccontato e continua a raccontare Gaza con rigore e umanità, mostrando sia le violenze dei terroristi di Hamas che quelle dell’esercito israeliano.

E c’è un episodio che basterebbe da solo a spiegare le parole fuori luogo della relatrice Onu.

Il 12 ottobre scorso, a Roma, durante un convegno organizzato dal Cnel e dalle Comunità ebraiche italiane, il direttore di Libero, Mario Sechi, si lancia in accuse durissime e provocatorie contro i media che seguono la guerra. Arriva perfino a dire di aver «visto pochi palestinesi dimagriti» a Gaza. Malaguti si alza e si mette di traverso: difende il mestiere, respinge quelle parole, ricorda che si raccontano i fatti, non le convenienze. Dopo aver definito Hamas per quello che è – una banda di tagliagole – pone una domanda semplice e decisiva: «Perché non sarebbe corretto parlare anche dell’orrore che è seguito all’orrore di Hamas? Qual è, allora, la linea dei valori occidentali?».

E porta un esempio che dovrebbe restare scolpito. Se un terrorista si nasconde in un ospedale, e l’esercito decide di prenderlo a cannonate, è giustizia o barbarie? E se nella sala del convegno dove sta parlando girasse voce che c’è un terrorista, sarebbe giusto colpire la sala con tutti dentro? Domande che bruciano, come deve essere quando si parla di guerra e di verità.

Ha sbagliato bersaglio, Francesca Albanese. E non di poco.

Perché il problema non è nemmeno il direttore di Libero. Perché la libertà di stampa è sacra, è garantita dalla nostra Carta e ogni giornalista ha il diritto di esprimere le proprie idee, anche se sbagliate, provocatorie, irritanti o fuori luogo, nei limiti delle leggi e dei codici etici che chi fa questo mestiere è tenuto a rispettare.

Limiti e leggi che non comprendono la violenza di una banda di facinorosi che assaltano la sede di un giornale, scambiando la violenza per politica e la minaccia per opinione. Se c’è un monito, è questo. E non riguarda i giornalisti. Riguarda chi crede ancora che le intimidazioni siano un argomento.

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