Per anni le grandi piattaforme digitali si sono comportate come predoni nel Far West del cyberspazio: senza legge, senza confini, senza rispetto. Hanno saccheggiato i contenuti dell’informazione, facendo man bassa di articoli, inchieste e reportage prodotti da redazioni con nomi e cognomi, con orari, turni, fatica, deontologia. Hanno costruito fortune miliardarie su contenuti che non hanno mai scritto, cavalcando l’onda dell’«open source»: tutto è gratis, tutto è condivisibile. Ma qualcosa, finalmente, sta cambiando.
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) ha imposto a Meta – la holding che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp – un risarcimento da oltre nove milioni di euro in favore del gruppo editoriale Gedi, per l’uso non autorizzato di articoli di testate come la Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX. Una cifra importante, benché distante dai 30 milioni chiesti, ma che rappresenta un precedente storico per l’editoria italiana. È la prima volta che un colosso del Web viene costretto a riconoscere un equo compenso per il giornalismo utilizzato senza licenza.
Certo, è un punto d’inizio. Ma è un punto d’inizio che sa di svolta. Perché conferma con chiarezza che il diritto d’autore vale ancora qualcosa anche nell’epoca dell’algoritmo. E perché dimostra che l’«old economy», come con disprezzo veniva chiamata l’industria editoriale, non può essere trattata come un relitto da spolpare. Il giornalismo ha un valore economico e civile: è ciò che tiene in piedi le democrazie, alimenta il dibattito, smaschera e controlla il potere, illumina le periferie, dà voce a chi non ce l’ha. Non è materia grezza da buttare nel tritacarne dei motori di ricerca.
Meta aveva offerto poco meno di 40mila euro. Spiccioli. Una mancia. Un valore simbolico, come se l’informazione fosse una comparsa accessoria nei flussi social, quando invece è spesso il contenuto che attira pubblico, pubblicità e interazioni. Agcom, con una scelta che non ha precedenti e non è stata neppure unanime (un commissario ha votato contro), ha stabilito che il valore si calcola con metodo: sui ricavi pubblicitari ottenuti da Meta grazie ai contenuti giornalistici e sull’eventuale “traffico di ritorno” verso i siti degli editori.
Nel 2024 c’era già stato un caso simile, ma ben più timido: Microsoft, per Bing, fu condannata a versare 730mila euro. Questa volta la posta è più alta e il colosso californiano è più grosso. Ma la legge – quella introdotta con la direttiva europea sul copyright recepita in Italia con il Regolamento di gennaio 2023 – è dalla parte di chi crea contenuti, non di chi li saccheggia. E Agcom ha fatto quello che doveva: da arbitro, ha fissato un criterio. E ha fatto giurisprudenza.
C’è chi parla di freno all’innovazione. Niente di più falso. Qui non si frena nulla: si ristabilisce un equilibrio. Innovare non può voler dire appropriarsi dei contenuti altrui. Il progresso tecnologico ha senso solo se si accompagna al rispetto delle regole. In fondo, non è un caso che il primo a rompere il silenzio sia stato, qualche mese fa, il New York Times, citando OpenAI per l’uso dei propri articoli nell’addestramento dell’intelligenza artificiale. La stampa americana, come spesso accade, è stata pioniera. In Canada e Australia, le trattative tra editori e piattaforme si sono trasformate in scontri aperti. Ma ora anche in Italia qualcosa si muove. E si muove nella giusta direzione. Non si tratta solo di soldi. Si tratta di dignità. Di riconoscere che un’inchiesta, un approfondimento, una notizia verificata, valgono più di un meme, di una reaction, di un balletto su TikTok. E che se vuoi usarli, devi pagarli. Semplice, logico, giusto.
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