L’economia italiana continua a perdere smalto. La crescita, quando c’è, è troppo modesta per rilanciare il Paese. L’Istat ha registrato nel 2024 un’espansione del Pil reale pari a +0,7 % rispetto al 2023.
Il dato, già di per sé debole, si è arenato nella seconda metà dell’anno: nel quarto trimestre il Pil ha segnato una variazione nulla rispetto ai tre mesi precedenti. Per il 2025 le previsioni sono modeste. Secondo la European Commission la crescita del Pil dovrebbe fermarsi a +0,4 %. Alcune stime private confermano la stessa tendenza. La società di consulenza EY prevede +0,4 % nel 2025 e un moderato +0,7 % nel 2026. Secondo il rapporto della Organisation for Economic Co operation and Development (Oecd), la produzione industriale in Italia è in calo da oltre due anni; a marzo 2025 risulta circa l’1,8 % inferiore rispetto a dodici mesi prima. Permangono una bassa produttività, poca innovazione, l’invecchiamento demografico, non ultimo lo storico, marcato divario produttivo e di opportunità di sviluppo tra Nord e Sud. L’Italia continua a scontare un rapporto debito/Pil tra i più alti d’Europa.
Anche nei prossimi anni, secondo le più accreditate previsioni macroeconomiche, il rapporto resterà ben oltre il 135 %. Senza un Pil in chiara crescita, il carico del debito - e gli interessi da pagare - pesano in modo insostenibile sulla spesa pubblica, sugli investimenti e, inevitabilmente, sulle future manovre economiche. Parte della tenuta economica degli ultimi anni è derivata da incentivi edilizi, ristrutturazioni, programmi del piano di ripresa. Tutti fattori la cui valenza in termini di facilitatori di crescita economica è contingentata a fasi temporali limitate. Gli investimenti fissi sono invece destinati a decelerare. In assenza di una strategia di lungo termine, il cosiddetto «effetto-bonus» finirà per esaurirsi, lasciando il sistema in una condizione di fragilità.
Sul versante del lavoro, il mercato mostra apparenti segnali di vivacità, anche grazie a politiche attive, alla domanda interna sostenuta da consumi e a qualche effetto di traino demografico. Tali marcatori di salute occupazionale non devono però trarre in inganno. Il più delle volte si tratta di un’offerta economicamente inadeguata e precaria, per di più non supportata da idonei percorsi formativi e d’investimenti in infrastrutture digitali. Con un debito/Pil così elevato e una bassa crescita, la capacità dello Stato di finanziare politiche sociali - welfare, sanità, istruzione, pensioni - viene compromessa. Questo fa sì che ogni choc (crisi internazionale, aumento dei tassi d’interesse, emergenze) possa produrre effetti amplificati, perché il margine di manovra è risicato. La stagnazione, se percepita come cronica, rischia di alimentare sfiducia tra i cittadini, in particolare i giovani, e nelle imprese: a cosa serve investire, crescere, formarsi se le opportunità restano limitate?
Una società con prospettive ristrette non potrà che essere sempre più in balia dei già conclamati fenomeni di emigrazione di cervelli, fuga di capitali, calo demografico. La tenuta del nostro sistema Paese resta così vincolata più a fattori esogeni - fondi europei, crisi globali, variazioni nei mercati internazionali - che a un serio progetto strutturale e articolato di ripresa messo in atto da chi sarebbe istituzionalmente deputato. Le previsioni moderate per il 2025-2026 (Pil +0,4 %–0,8 %) indicano che l’economia italiana resta in una fase di “decrescita evitata”, non di rilancio. Sebbene i conti pubblici sembrino migliorare - deficit sotto controllo e ricavi fiscali extra - il futuro rimane pieno d’insidie. Se non si affrontano il calo di produttività, l’invecchiamento demografico, la debolezza dell’industria, la scarsa propensione all’innovazione e la necessità d’investimenti per un percorso di transizione energetica, la ripresa rischia di essere un miraggio e il nostro bel Paese di restare intrappolato in un’esistenza economica di “semi-crisi permanente”.
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