La Cina reagisce al quindici a zero inferto da Trump all’Unione Europea. Niente accordo a nostre spese è il messaggio. A Washington capiscono al volo e subito il presidente americano congela le restrizioni all’export hi-tech verso la Cina. Xi Jinping pesa. Per l’Europa la sconfitta sul campo di golf di Turnberry in Scozia sancisce il declino di un’era. È finito il tempo della trattativa dove a prezzo di compromessi le parti si accordano per esaurimento. Quando la globalizzazione imperava tutti avevano interesse a tenere aperte le vie commerciali. La Germania di Angela Merkel su questo ha costruito le sue fortune. Adesso il risveglio è brusco e prima ancora della Scozia arriva da Pechino. La delegazione europea in visita ufficiale in Cina nei giorni scorsi constata quanto il peso di 19mila miliardi di Pil Ue non conti sulla bilancia del potere. A Ursula von der Leyen e Antonio Costa i dirigenti cinesi hanno fatto capire che su una questione strategica come le terre rare non c’è partita. Per fare il salto nell’era dell’Intelligenza artificiale ci vogliono processi di raffinazione che rendano questi materiali grezzi utilizzabili per i semi conduttori.
La Cina non si dà problemi ad inquinare, lo ha fatto in tutti questi anni e noi occidentali le abbiamo fatto fare il lavoro sporco. L’idea era che prima o poi i vantaggi li avremmo avuti anche noi senza subire i devastanti effetti ambientali di una lavorazione tossica. Per dire, le terre rare ci sono anche in Europa e l’Ucraina ne è un esempio, è il passaggio successivo che incontrerebbe le opposizioni dell’opinione pubblica europea. Tutti i vantaggi della produzione industriale senza la responsabilità del lato oscuro della medaglia ha guidato l’Europa fino ad ora. Lo stesso è accaduto con la difesa, fin quando Putin intuendo le debolezze strutturali e culturali di un’Europa infiacchita, ha lanciato la sfida. Adesso abbiamo un problema di riarmo e quindi di spesa al 3,5% del Pil nello spazio di un decennio. Per i dazi americani vale lo stesso principio. Si è indirizzata l’economia europea all’export fino a dissestare l’equilibrio commerciale mondiale degli Stati. La vittima principale di questo sbilanciamento, gli Stati Uniti, ha reagito. Hanno le loro colpe gli americani, e lo sappiamo bene -nel 2001 la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio senza pagare dazio in nome di un’astratta libertà commerciale - ma la Germania anziché aumentare la domanda interna tedesca ed europea, come più volte richiesto dagli stessi americani, ha condiviso con la Cina il primato nelle esportazioni. Sperava di fare il colpo grosso nascondendosi dietro il paravento dell’Unione Europea.
Adesso per sciogliere i nodi non basta la forza economica e nemmeno quella presunta morale della difesa dell’ambiente. Ci vuole forza politica. Il risultato è che l’export cinese verso l’Ue è aumentato del 7% nel primo semestre, mentre l’import cinese dall’Europa è calato del 6%. Xi Jinping ha ridotto la visita della scorsa settimana di von der Leyen e Costa da due a un giorno. L’Unione europea potrebbe uscire dal vicolo cieco. Aumentare la domanda interna e creare spazio per compensare il calo dell’export. Ciò che ostacola i commerci interni sono le burocrazie nazionali che per il Fondo monetario internazionale a dicembre 2024 pesano per il 44% sui prodotti fisici e del 110% sui servizi. Se contiamo che i dazi di Trump al 15% più il 15% della svalutazione del dollaro fa 30%, avremmo dato una risposta di comune unità d’intenti. Ma occorrerebbe che l’Irlanda rinunciasse alla tassazione agevolata per le grandi multinazionali e che Macron e Merz andassero meno a Pechino a trattare separatamente i loro interessi nazionali. Per citare alcuni esempi. A Pechino come a Washington non hanno bisogna del divide et impera degli antichi romani. Gli europei divisi lo sono già.
© RIPRODUZIONE RISERVATA