L’Europa è tornata alla casella iniziale

Il quadro è sempre più critico, da ultima spiaggia. «A un anno di distanza, l’Europa si trova in una situazione più difficile. Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno».

L’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità»: così Mario Draghi, personalità fra le più ascoltate e autore del celebrato Rapporto del 2024 sulla competitività, in conferenza stampa con Ursula von der Leyen per un primo bilancio di quel dossier. Un anno fa il clima era celebrativo, da grandi occasioni e il Piano interpretato come una sveglia indispensabile per rimettersi in piedi: investimenti aggiuntivi per 800 miliardi di euro l’anno, debito comune, rimozione delle barriere interne, più cooperazione e meno frammentazione, recupero di competitività e produttività. Obiettivo: fare dell’Ue un soggetto geopolitico, pena la sua irrilevanza.

In realtà, secondo un’autorevole indagine che va per la maggiore, solo l’11,2% delle 383 raccomandazioni di Draghi sono state attuate finora, peraltro su materie meno divisive come la semplificazione normativa. L’ex banchiere centrale lamenta la frustrazione dei cittadini dinanzi alla lentezza decisionale di Bruxelles, ma è un sentimento che si coglie anche nel suo atto d’accusa, perché di questo si tratta. Un giudizio severo che s’intreccia con quello dei vari Romano Prodi, Paolo Gentiloni, Mario Monti. Anche Enrico Letta, autore dell’altro Rapporto, ha ricordato che il completamento del mercato unico nel 2028 è l’ultima chance, precisando che l’Europa è disarmata nell’attuale contesto internazionale di potenza. Dal Meeting di Rimini in poi, Draghi ha rilanciato il suo sguardo severo verso i vertici dell’Unione mettendoli davanti alle loro responsabilità: l’Europa deve cambiare, perché è evaporata l’illusione del mondo di ieri, cioè la credenza che la dimensione economica portasse con sé potere geopolitico.

La conferenza stampa ridefinisce la sostanza del Rapporto, la inserisce in un contesto aggravato, accentuandone il monito e la gravità delle mancate risposte. A partire dall’accordo sui dazi di Trump che potrebbe aver segnato il declassamento da un’alleanza ad un vassallaggio, perché lo spettro che s’aggira è quanto contare ancora sull’America e a quali condizioni che non siano quelle della sottomissione o della riduzione del danno. A tempi straordinari servono azioni straordinarie e la presidente della Commissione (che è parte in causa) non può che concordare perché la «routine non può bastare», rilevando però che sulla competitività, certo missione incompiuta, non si parte da zero.

Il fatto nuovo, mentre i nazionalismi lavorano all’interno delle istituzioni per avere minor integrazione politica, è l’offensiva del dissenso da parte del fronte europeista. Lo stesso recente discorso dello Stato sull’Unione di von der Leyen, piaciuto al blocco centrista dell’Europarlamento, è stato accolto in chiaroscuro. Se 20 anni fa prevaleva l’economia, oggi c’è una forte richiesta di politica, ma le istituzioni comunitarie non hanno gli strumenti per rispondere alle diffuse aspettative che sono perlopiù politiche. Mentre ci stiamo avvicinando a «un nuovo 1914», come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella, la Commissione è priva delle competenze e delle risorse per guidare la politica estera e di sicurezza, che spetta invece al Consiglio europeo dei 27 leader nazionali.

Si torna alla casella iniziale: l’Europa agisce se glielo consentono i singoli Stati, ma è giunto il tempo di uscire da questa trappola che blocca l’iniziativa dell’Unione, di far valere il suo peso storico: il tempo non gioca a nostro favore.

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