L’europa stretta nella morsa Usa-Cina

L’Europa è sull’orlo di una crisi di nervi. Parafrasando un celebre film di Almodovar, così si presenta lo stato delle cose all’indomani dell’accordo di tipo «scozzese» raggiunto tra Unione europea e Stati Uniti sui dazi. Da parte della presidente della Commissione di Bruxelles, Von der Leyen, ci vuole tanto coraggio politico nel magnificare un compromesso imbarazzante definendolo un «accordo enorme, che porterà stabilità e prevedibilità».
In Italia la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con il passare delle ore si è rifugiata in un giudizio («È stata evitata un’escalation») che certo non mostra trionfalismi, mentre il ministro Tajani si è esercitato in una sorta di fideismo realistico sostenendo che i dazi al 15% per i prodotti esportati negli Usa sono «sostenibili».

La verità è che l’Unione europea certifica la sua «ritirata strategica» dopo una battaglia di retroguardia, subendo il pressing del presidente americano e mostrando tutta la sua imbarazzante debolezza. La Von der Leyen ha cercato sino alla fine le condizioni per un accordo equo o piuttosto ha subìto il diktat americano, facendo buon viso a cattivo gioco? I numeri – peraltro ancora non completamente definiti – sono impietosi: 10 miliardi per difetto per le esportazioni italiane e mezzo punto di Pil, impegno europeo a comperare energia per 750 miliardi in tre anni e altre centinaia di miliardi in acquisto di armi americane a prezzi aumentati.

Quali sono le contropartite? Davvero poche. Alcuni settori strategici – aeromobili, semiconduttori, materie prime critiche e alcuni prodotti agroalimentari – beneficeranno di un regime zero-zero, cioè nessun dazio in entrambi i sensi. L’intesa raggiunta con gli Usa fa seguito al clamoroso fallimento della visita al più alto livello della delegazione dell’Unione europea in Cina di pochi giorni fa. Ed emerge una verità amara e drammatica che vede l’Unione europea stretta nella «morsa geopolitica» di Washington e Pechino. L’Europa deve aprire i mercati ad alcuni prodotti americani e acquisire maggiore energia, investimenti e armi dagli Stati Uniti sotto pesante pressione trumpiana. La Cina, forte dei suoi sussidi alle proprie imprese, del controllo mondiale del mercato delle batterie al litio e del fotovoltaico e di un ecosistema industriale completo, si fa forza sulla dipendenza europea.

Inoltre Bruxelles non può seguire una politica dei «due forni» tra Cina e Stati Uniti, perché si scontra con gravi difficoltà strutturali. L’Unione europea soffre di un enorme deficit commerciale con la Cina (306 miliardi di euro nel 2024), la sua autonomia negoziale è pesantemente condizionata dalla richieste unilaterali provenienti da Washington, mentre Pechino chiede di togliere le misure restrittive europee su veicoli elettrici e terre rare.

Ma la sua debolezza più grande è al proprio interno. Al di là della vulnerabilità sistemica derivante dall’arretratezza in settori cruciali come la tecnologia digitale, l’Intelligenza Artificiale, i semiconduttori e l’energia, all’Unione europea manca una narrativa forte e unitaria oscillando tra valori come il multilateralismo e i diritti umani e i propri interessi commerciali. Tutto questo indebolisce la sua capacità di attrarre alleati in un mondo dove la democrazia è in ritirata e non è in grado di esercitare il suo «soft power» in maniera coerente. Come uscire nel breve periodo da ciò che sembra un vicolo cieco? Imboccando la diversificazione commerciale che passa dal Sudest asiatico (Asean), dall’America Latina (Mercosur), dall’India e rafforzare la propria autonomia industriale e tecnologica.

© RIPRODUZIONE RISERVATA