
Ci sono notizie che non passano inosservate, soprattutto quando si parla del vil denaro. La Corte Costituzionale ha deciso che il tetto ai superstipendi dei manager pubblici era incostituzionale. Così, quel limite fissato a 240mila euro annui - introdotto dal governo Renzi - salta, e i compensi torneranno a essere legati alla retribuzione del primo presidente della Cassazione: 311mila euro e spicci lordi l’anno. Una cifra che - va detto - è ancora distante dai 480mila eurro del governatore della Banca d’Italia. Ma il segnale che arriva è chiaro: si può, si deve, tornare a pagare di più l’élite della burocrazia pubblica. Manager, dirigenti, magistrati di prima fascia, per i quali scatteranno i maxi aumenti. Si farà probabilmente una «ricalibratura», con un Dpcm o nella prossima manovra.
Per qualcuno è uno scandalo. Per altri, un’ovvia correzione di rotta. Se si vuole una pubblica amministrazione efficiente - dalla sanità alle imprese statali ai trasporti - spesso e volentieri bisogna ricorrere a manager privati che stanno sul mercato a prezzi molto più alti. Non a caso per i manager e i super dirigenti lo Stato fa l’eccezione di cooptarli direttamente, come si fa nel privato, e non tramite concorso, come avviene per legge nella Pubblica amministrazione, dai professori universitari ai poliziotti. Negli Usa, dove il settore pubblico è spesso disprezzato (vedi Donald Trump ed Elon Musk) ma dove si cerca l’eccellenza nelle posizioni chiave, un manager capace viene pagato quanto (o quasi) nel privato. Con una differenza: se non funziona, viene licenziato. In Italia, un po’ meno. Ecco il punto dolente: forse il tema non è lo stipendio, ma la selezione, la responsabilità, la trasparenza. In assenza di queste tre condizioni, il ritocco verso l’alto delle retribuzioni pubbliche non serve a nulla. Siamo sicuri che nel campo della sanità o alla Rai (soprannominata «il cimitero degli eleganti», con la «g») gli stipendi d’oro dei manager siano all’altezza dei personaggi scelti e non delle logiche della cara, vecchia, intramontabile lottizzazione? Ad ogni modo, è il mercato bellezza: se vuoi un manager capace, devi promettergli un salario da banchiere o da ceo di multinazionale. Come se lo Stato fosse una holding, e non un austero sacrario. Il talento, le capacità, l’esperienza, vanno pagati. Anche il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, con una lucidità forse impopolare, aveva anticipato questo cambio di passo già un anno fa: rivedere il sistema retributivo per migliorare la qualità della P. a. e attrarre talenti, appunto. È una visione al passo coi tempi.
Nel frattempo, chi già occupa certe poltrone si troverà un bel regalo in busta paga. Il rischio che il principio del merito venga oscurato dal vecchio vizio del privilegio è concreto. E anche l’idea che un dirigente dello Stato debba anche incarnare una missione civile - come recita l’articolo 54 della Costituzione - è sempre più una reliquia retorica. Eppure chi entra nella Pubblica amministrazione dovrebbe ricordarsi di essere beneficiario di quell’«onore» contemplato da quell’articolo. Assolvere alla missione di «civil servant», lavorare al servizio diretto dei cittadini, dovrebbe riguardare anche una riduzione dei benefici economici. Lo hanno fatto in passato in molti, continuano a farlo - probabilmente un po’ meno - altri anche oggi. Il presidente Sergio Mattarella, che avrebbe diritto a un compenso vicino al tetto (239 mila euro lordi), ha scelto di rinunciarvi e vivere con una cifra equivalente alla sua pensione da docente (che è di 179 mila euro lordi annui). Un gesto che, in altri Paesi, sarebbe celebrato come esempio morale. Qui da noi, sembra quasi imbarazzare.
E così, mentre l’Italia annaspa per trovare un equilibrio tra equità e competitività, si torna a ridiscutere il denaro pubblico come se fosse l’unico strumento per riformare lo Stato. Ma non basterà alzare gli stipendi per avere una pubblica amministrazione all’altezza. Senza riforme vere, senza «accountability», sarà solo un’illusione costosa.
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