Quando la fabbrica non era solo un salario ma anche un pezzo di identità

Mentre l’intelligenza artificiale si divora il mondo, noi proviamo a salvare l’anima, anche fosse solo per l’angolo di terra che abbiamo in sorte di abitare. Nel buio accecante, (ora diremmo iberico) degli eccessi tecnologici e futuribili, azzardo la ricerca di tracce di un umanesimo perduto, senza pretese filosofiche, letterarie e tantomeno bergogliane. L’ho presa in Si, la nota più alta, per una colonna sonora orecchiabile alle diverse generazioni che ho attraversato, intrecciando il rumore di fondo delle officine e delle botteghe artigiane con il rimbombo dei passi degli operai che superavano i cancelli delle fabbriche, per poi ripetere a ritroso lo stesso cammino, tutti in gruppo e senza defezioni, appena la sirena dava il via libera.

Erano i tempi nei quali imprenditori e operai condividevano la fatica il sabato e talvolta la domenica mattina, uniti dall’obiettivo comune di far crescere la comunità e l’industria lecchese batteva il maglio in prima fila anche a livello internazionale. Ed io alle elementari, cresciuto in una famiglia tutta libri e titoli di studio, avevo eletto come idolo il mio compagno di banco, il Caimi, solo perché mi raccontava che suo padre, una tutta blu della Badoni, lavorava sei mesi all’anno negli Stati Uniti, installando binari per chilometriche ferrovie. Credo sia questo il senso profondo del documentario “Vite di fabbrica”, realizzato dallo Spi-Cgil, che raccoglie le testimonianze di operaie e operai lecchesi, protagonisti dell’esplosivo sviluppo industriale del Novecento. Un’operazione di scavo e un racconto capace di tessere un filo indistruttibile tra passato, presente e futuro. Nessun Viale delle rimembranze e tantomeno riverenze al tempo andato, ma un ripasso della storia, maestra di vita.

Nei miei occhi lampeggiano le acque del torrente Caldone colorate di rosso e l’aria che sembrava buona solo perché nessuno ne misurava l’inquinamento. Provvedevano Breva e Tivano a spazzare via le molecole malate. Ora, dopo l’ubriacatura del terziario avanzato, c’è chi guarda al futuro della nostra città puntando sul turismo. Ne ho scritto di recente, trovando consenso e dissenso, ma una convergenza unanime sulla necessità di andare oltre l’equazione lago-montagna. Semmai le finestre a volte socchiuse e ora spalancate dal documentario aprano all’opportunità di valorizzare quella epopea industriale che ha reso solido il tessuto sociale ed economico del territorio.

Raccogliere le voci di chi ha vissuto quella stagione significa restituire un senso di continuità storica, civile e etica. Non è proprio il caso di trastullarsi tra le meraviglie, le sfide, le fatiche del tempo che fu, ma vale la pena ricordare, una volta ancora, come soffiava l’ambizione di una gens che credeva nel lavoro come motore di riscatto. Gli imprenditori, assai di rado capitani di ventura, e gli operai battevano la stessa bandiera. La fabbrica non era soltanto un salario, un posto fisso come quello di un bancario, ma un pezzo di identità e un investimento per il futuro, specie dei figli. Agli studenti di oggi attratti dalle sirene dei guadagni facili - “da grande farò lo youtuber”, “investo in criptovalute”, “mi imbuco in un reality” - abbiamo il dovere di raccontare questa storia, non per imporre modelli, ma per offrire alternative, per mostrare che dietro ogni diritto e ogni benessere si sono consumati sacrifici veri, mani sporche di lavoro, vite spese con dignità. In tempi di precarietà diffusa e di tensioni finanziarie, le radici solide sono l’antidoto più efficace per non farsi travolgere e disorientare dalle luci della ribalta.

Meglio ancora se le pagine degli anni a venire saranno scritte a più mani coltivando quel “genius loci” che rende speciale Lecco e che esalta le peculiarità della Valtellina, due aree che non a caso condividono il progetto editoriale della comune esperienza cartacea, televisiva e social. Non per passare alla storia, ma neppure per limitarci alla geografia.

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