Riapre il teatro: l’attesa dei lecchesi

Tremila giorni dopo, riapre il Teatro Sociale. L’annuncio è dei giorni scorsi; la data indicata dal sindaco Mauro Gattinoni è quella del 29 novembre. La prospettiva è di una stagione teatrale di transizione, con spettacoli e musica sinfonica in partenza a gennaio, abbonamenti al via da fine novembre e costi e riduzioni ancora da tarare. Ma tant’è. Il Sociale, la piccola Scala lecchese, torna alla vita. Otto anni e mezzo sono un’eternità, ma in fondo sono giusto la metà esatta di quei diciotto anni di chiusura totale andati in scena dal 1951 al 1969. Tempi di dilemmi, quelli. Restaurare il Teatro o abbatterlo per fare spazio a una nuova arteria cittadina direttamente collegata al ponte Nuovo? Per fortuna, l’allora direttore del Giornale di Lecco Giacomo De Santis e il sindaco Alessandro Rusconi (tra gli altri, ovviamente) tennero il punto. Il Comune completò man mano l’acquisizione dei palchetti e a novembre 1969 si inaugurò nuovamente, a quasi cent’anni dalla “prima”. Solo la volta, ricoperta da uno strato di cemento e amianto (e qui, come dicono gli storyteller di professione, ricordiamoci il dettaglio perché verrà utile in seguito), era ancora tabula rasa. Ci pensò Orlando Sora nel 1979 ad affrescarla con “L’allegoria della vita”, grazie anche al mecenatismo della Banca Popolare di Lecco. Altri tempi.

Per quanto riguarda la seconda grande chiusura, tocca invece tornare al 26 maggio 2017. Era un venerdì e, forse con una metafora un po’ ritrita, non si parlava d’altro che del sipario abbassato al Sociale. Erano pure i giorni nei quali il Calcio Lecco (in mano ai curatori fallimentari) festeggiava una soffertissima salvezza in Serie D e, di lì a poco, sarebbe acquistato all’asta dal futuro patron Paolo Di Nunno. Erano i giorni della sentenza in Appello dell’inchiesta Metastasi sulle cosche locali. Insomma, era un’altra epoca anche per la nostra città.

A rendere necessaria la chiusura, chiarì l’allora giunta bis di Virginio Brivio, erano stati i rilievi condotti su tutti gli edifici comunali. I tecnici avevano storto il naso riguardo la volta del Teatro, chiedendo interventi urgenti per assicurarne la stabilità. Già, ma perché non era stato redatto un progetto (e trovati i relativi finanziamenti) prima di chiudere baracca e burattini? A suo tempo, l’assessore alla partita Corrado Valsecchi aveva spiegato che, proprio per determinare il tipo di intervento e i costi necessari, si doveva ispezionare la volta e montare allestimenti particolari. Insomma, bisognava prima chiudere e poi progettare: un’inversione cronologica che sarebbe costata tre anni di stop. Il Teatro sarebbe però stato cantierato solo a ottobre 2020 con una previsione lavori di circa un anno. Tutto bene, se non fosse che il diavolo era pronto a metterci lo zampino.

A settembre 2019, cinque mesi prima della bomba Covid, Valsecchi lancia un allarme inatteso: la polverizzazione dell’intonaco palesa tracce di amianto. Che fare? Un altro lotto e un altro bando? E l’acrilico del Sora? Lo studio incaricato prospetta tre possibili soluzioni. Incapsulare l’intero dipinto con un prodotto trasparente ad hoc; ricoprire la volta con due strati e proiettare il dipinto in superficie; sagomare la volta in blocchi di un metro per un metro, rimuovere poi l’amianto e ricomporre l’opera. La patata bollente finisce dritta nelle mani dell’amministrazione entrante, quella di Mauro Gattinoni e dell’assessore alla partita Maria Sacchi. La valutazione cambia, vince l’ipotesi “a blocchi”. Via il precedente supporto, viene eseguita la bonifica, nuovo intonaco e riapposizione dell’acrilico. Il Sora, ora, è tornato sulla volta del Sociale.

Le lancette, intanto, continuano a girare. A fine 2022 viene chiuso il primo lotto di lavori per il consolidamento strutturale e la messa a norma degli impianti per l’antincendio. Un anno fa, secondo appalto e via al nuovo lotto, relativo a tutto il resto degli interventi e delle finiture (sipario storico compreso). Il resto, compreso l’annuncio dell’inaugurazione definitiva, è storia recente. In mezzo, come detto, tremila giorni e sei milioni di euro di investimenti. E progetti, dibattiti, delibere; e quel vecchio Teatro che giaceva inerte alle spalle del suo Garibaldi di pietra. Ecco perché ora la responsabilità che ricade sulla Fondazione Teàrte (ente senza scopo di lucro, emanazione del Comune e della società, chiamato a gestire parte culturale e finanziaria del Teatro) è gigantesca. Perché la città e i lecchesi attendono questo momento da quasi un decennio. Perché nella vita di tutti i lecchesi c’è sempre stato un evento pubblico andato in scena al Sociale, uno spettacolo rimasto nel cuore, una cerimonia istituzionale che ha trovato lì dentro la giusta e sacrale cornice.

Di questi tempi, si fa un gran parlare di strategie e marketing, ci si appella alla neonata Fondazione per attirare investimenti, generare un orizzonte unitario tra le altre rassegne e perfino tessere un’identica trama con i concerti pop dell’estate lecchese. Tutto vero, tutto giusto. Ma i lecchesi non vogliono un luna park culturale, hanno solo fame di riprendersi il loro Teatro. Con quell’odore di legno buono e il tocco rassicurante del velluto; e poi, i faretti che calano d’intensità, lo scalpiccio degli attori sul palcoscenico e quell’accenno di cordami e macchinari che occhieggia dalle quinte. Il desiderio, in fondo, è che a questa gran macchina di nuovi impianti e certificati antincendio non manchi un’anima. Non servono nemmeno i grandi nomi (se arrivano, tanto meglio), né le campagne pubblicitarie o l’ennesima narrazione pop. Solo anima. Idee, umanità, apertura alla città e ai suoi desideri. Lo abbiamo atteso troppo a lungo

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