Nel lungo elenco delle città invisibili di Calvino, una vera e propria mappa per immagini del mondo moderno, c’è Fedora. La sua particolarità non è né nella forma esteriore, né nelle attitudini dei suoi abitanti. Dentro un enorme palazzo di metallo, tuttavia, ogni stanza contiene una sfera di vetro. Guardando in quella sfera, scrive Calvino, chiunque può vedere i tanti modi nei quali si era cercato di immaginare la forma di Fedora, senza tuttavia realizzarla. Per una sola Fedora reale, ce ne sono a migliaia inespresse, sognate, progettate. Ma la verità interiore di Fedora comprende anche i desideri sigillati in quelle sfere.
Ora, tralasciando l’idea di rappresentare per immagini i modelli del linguaggio umano e di ogni forma di rappresentazione, questa è anche una stupenda e generosa allegoria dell’urbanistica. E di chi studia e vive in prima persona la contraddizione di dare forma alle città, tanto nella loro concretezza (strade, palazzi, viali, permessi e cubature varie) quanto nella loro identità. Un complesso groviglio di storia, cultura, aspettative individualiste e percorsi comunitari che potremmo pure, non senza un pizzico di retorica, definire “anima”. Di chi, in definitiva, crede che i luoghi non siano solo pareti, soprattutto quando c’è di mezzo una comunità in cammino.
Giovedì scorso per la prima volta, i lecchesi hanno potuto mettere piede nei due ex magazzini dello storico scalo ferroviario della Piccola. Significativa l’immagine serale dei due edifici, rimessi a nuovo dopo più di due anni di lavori. A lungo degradati, ricettacolo di rifiuti e vandalismi, emergono ora dalla terra di nessuno racchiusa tra il Poli e il centro città: la facciata in vetro che sa di apertura alla città, la sequenza geometrica di finestroni illuminati, l’ombra del fregio di gronda, l’intonaco riportato alle tinte originarie, i traversi in legno e le capriate a vista all’interno. Ma, come per Fedora, è forse ciò che non si vede a realizzare il senso della Piccola. Dal 2018 (e grazie anche alle colonne di questo giornale) si è aperto in città un lungo dibattito sul futuro dell’area. Si è parlato di mercato coperto, di biblioteca, di musei, di arene eventi, di parchi tematici e semplici aree verdi, di laboratori e percorsi urbani. La Piccola di oggi avrà funzioni ben definite (una parte commerciale e un salone polifunzionale, tralasciando i futuri progetti del parco urbano, del silos interrato e del tunnel di raccordo con via Fiandra). Ma le piccole sfere di vetro, le visioni che hanno animato i sogni dei lecchesi, restano lì dentro.
Del resto, la Piccola non è il successo di una parte, o di un solo sindaco. La storia dell’acquisizione dell’ex scalo ferroviario è tempestata di ostacoli e paludi. Tutto si apre nel 1986, quando Comune e Ferrovie si accordano per scambiare le proprietà della Piccola con l’area di Maggianico. La permuta immobiliare, però, si realizza solo a una direzione. Mentre le Ferrovie mettono mano a quello che diventerà il polo logistico al Bione, il Comune resta a bocca asciutta. Gli anni passano, la situazione si complica ulteriormente. Non solo perché fioccano perizie differenti sulle aree (chi deve conguagli alla controparte? E di quanto?), ma anche perché intanto la compagine societaria delle Ferrovie si è divisa in più scatole. Virginio Brivio, allora sindaco, si sobbarca un enorme lavoro di tessitura. Alla fine, l’accordo viene firmato a dicembre 2019, con cessioni e remunerazioni incrociate tra Palazzo Bovara, Rfi, Mercitalia e Fs.
Insieme al nome di Brivio, protagonista dell’impresa, è impossibile non citare quelli di Sandro De Martino, Luca Gilardoni e Nadia Falasconi sul piano tecnico del Comune, ma anche di Agnese Massaro, Gianmario Fragoneli e Anna Sanseverino sul fronte dem. Indispensabile, come del resto in quasi tutta la storia recente lecchese, il contributo di Vico Valassi e, rientrando da destra nell’alveo della politica, Roberto Castelli, Giulio Boscagli, oltre a Flavio Nogara. Nella fase dei progetti e dei cantieri, oltre ovviamente a Mauro Gattinoni e Maria Sacchi, gli architetti Piero Luconi e Sergio Fumagalli, l’azienda I.M.G. e Matteo Sintini della Soprintendenza.
La Piccola, insomma, è un traguardo collettivo. Di uomini e donne che hanno creduto, ciascuno per la propria parte, che nessun luogo è tale senza una visione condivisa. Il che, anche senza nastri tricolori, era già di per sé il traguardo di maggior valore.
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