“Meno Stato, più mercato”, è stato per decenni lo slogan prediletto da economisti ed esponenti politici d’Occidente.
Oggi, ci troviamo di fronte a un evidente ribaltamento di questo scenario. Avanzano ovunque nuove forme d’intervento da parte dello Stato, indirizzate al controllo o, in ogni caso, all’acquisizione di importanti partecipazioni al capitale di grandi aziende. L’obiettivo è quello di guidare la transizione in settori ad alta intensità di capitale e ridurre la dipendenza da Paesi ritenuti ostili o inaffidabili. Questa tendenza, di cui si è fatto primo paladino Donald Trump dopo la sua nomina alla Casa Bianca, si sta affermando da qualche tempo nelle maggiori economie mondiali, come Cina e India e nei maggiori Paesi europei.
L’Italia non fa eccezione, avendo assunto negli ultimi anni, attraverso il ministero del Tesoro, un crescente peso nel capitale di grandi società strategiche quotate in Borsa che, guidate da manager molto esperti, stanno registrando ottimi risultati. Fincantieri è cresciuta in sei mesi del 129,5% puntando su cantieristica militare, sottomarini ed export. Leonardo, giovandosi della spinta della domanda globale di difesa, è cresciuta del 77,6%. Cavalcando trasformazioni tecnologiche e transizione green, hanno raggiunto apprezzabili risultati Poste italiane (+33,7%) e Italgas (+33,6%). Rilevante anche la crescita ottenuta da Snam (+20%), uno dei principali operatori energetici al mondo, ed Enel (+19%) che detiene il primo posto nel listino tra le partecipate pubbliche con 83,4 miliardi di capitalizzazione (il 9% della Borsa). Seguono Eni (43,4 miliardi), Leonardo (26,6) e Poste (23,7).
Di recente, ha suscitato non poche perplessità l’acquisizione - supportata dall’adesione di grandi azionisti storici come Delfin e il gruppo Caltagirone - di Mediobanca da parte del Monte dei Paschi di Siena, una banca commerciale più piccola e che in precedenza era stata salvata dallo Stato. Siamo, in ogni caso, ben lontani dalle esperienze dell’ultimo scorcio del secolo scorso, quando gran parte degli investimenti pubblici è stata indirizzata al salvataggio di carrozzoni e di aziende decotte senza alcuna prospettiva di ripresa. Oggi assistiamo in Italia al successo di molte grandi aziende partecipate dallo Stato che sono la conseguenza di mirate scelte di politica industriale.
Scelte che, guardando a ciò che avviene nei Paesi più avanzati, si concentrano su settori ad alto impatto strategico come difesa, energia, reti, logistica, semiconduttori e molti altri. Il rischio, ora, è che questi apprezzabili indirizzi di politica economica possano incorrere negli atavici inconvenienti che si sono manifestati in passato, connaturati alla nostra scellerata tendenza a far quasi sempre prevalere la furbizia e le scelte utilitaristiche all’intelligenza visionaria messa al servizio del bene comune.
Primo fra tutti quello della politicizzazione delle scelte che, in non pochi casi, ha compromesso gli equilibri gestionali di grandi aziende determinando notevoli aggravi per la finanza pubblica. Un altro rischio, tenuto conto del nostro enorme debito pubblico, potrebbe essere rappresentato dalla volontà dell’azionista pubblico d’influenzare dividendi o investimenti, seguendo prevalentemente proprie esigenze di bilancio.
C’è poi da considerare che un’eccessiva concentrazione di potere economico nelle mani di grandi aziende partecipate a maggioranza dallo Stato, potrebbe indebolire la concorrenza, facendo sì che in nome dell’interesse nazionale si creino oligopoli protetti a basso know-how in termini d’investimenti ecosostenibili e in infrastrutture digitali. Ecco perché acquista grande rilevanza che il ministero dell’Economia abbia annunciato l’intenzione di «porre in essere, entro l’anno, una revisione della strategia per le partecipazioni statali con l’obiettivo di rafforzarne l’efficienza, l’indipendenza gestionale e la sostenibilità a lungo termine». Una decisione questa che, al di là delle solite, puerili schermaglie politiche, ci si augura riscuota largo consenso. Certamente, sarà valutata con favore dagli investitori internazionali che hanno tutto l’interesse di vedere nel nostro Paese un partner industriale affidabile.
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