Ravasi: «Ha fatto bene a non lasciare.
E’ stato un uomo di pace fino alla fine»

Lecco - Sondrio

Francesco è stato un campione dell’amore per gli ultimi, del dialogo interculturale e interreligioso e un costruttore di pace. Il pontefice “venuto dalla fine del mondo” ci ha salutato la domenica di Pasqua con il volto devastato dalla sofferenza dando la benedizione Urbi et Orbi. Non ha dato le dimissioni, che molti probabilmente auspicavano, perché ha preferito il linguaggio muto di un corpo sofferente nell’era in cui prevale la cultura dello scarto. Ne abbiamo parlato con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio consiglio per la cultura e l’educazione e ispiratore del “Cortile dei gentili”. Questo spazio di incontro tra credenti e non credenti, nato durante pontificato di Benedetto XVI, ha continuato la sua attività con la benedizione di Papa Francesco.

Il cardinale, nato a Merate nel 1942, teologo, biblista, già prefetto dell’Ambrosiana, uomo di cultura dai vasti orizzonti, mette in luce il ruolo di Papa Bergoglio nella costruzione di un “mondo aperto” e il suo grido estremo per la pace.

Cardinale Ravasi, che ricordo ha di Papa Francesco? «I ricordi su Papa Francesco sono molteplici. In particolare, vorrei rammentare quello che riguarda il Conclave del 13 marzo 2013, quando siamo entrati per l’ultima votazione. Io l’ho incontrato lì e ci siamo fermati a parlare in una delle sale precedenti a quella dove si tiene il Conclave. L’allora cardinale Bergoglio mi diceva che mi conosceva da quando era a Buenos Aires, perché usava i miei libri per i suoi corsi e per le omelie domenicali. Ci siamo fermati a parlare così a lungo che tutti i cardinali erano entrati per la votazione, mentre noi siamo rimasti fuori ed è arrivato un cerimoniere a sollecitarci a gran voce. Papa Francesco ha ricordato questo momento con me più di una volta. Diceva che quel ritardo era come se una mano lo avesse fermato, perché aveva una sorta di pulsione interiore che lo tratteneva da quella meta che lo attendeva da lì a poche ore, dato che nel pomeriggio lui sarebbe diventato Papa. Tra gli altri ricordi c’è anche quello del suo legame con il famoso scrittore argentino Jorge Luis Borges, che lui aveva invitato quando insegnava alla scuola dei gesuiti a Santa Fe in Argentina, per tenere delle lezioni ai suoi alunni su come scrivere dei racconti. Quando il pontefice ha scritto la “lettera sul ruolo della letteratura nella formazione” ha inserito una definizione di Borges che gli piaceva molto: «Ascoltare la voce dell’altro». Poi ci sono tanti ricordi ufficiali che mi hanno visto protagonista come cardinale al Pontificio consiglio per la cultura e soprattutto al Cortile dei gentili, dove si incontrano credenti e non credenti, uno spazio nelle corde di Papa Francesco».

Come sarà ricordato Papa Francesco? «È interessante notare il saluto di Papa Francesco dalla loggia di San Pietro quella sera all’inizio del suo pontificato e il congedo di domenica con la benedizione Urbi et Orbi. Dopo la celebrazione della messa pasquale noi cardinali abbiamo visto bene il Papa e mostrava chiaramente i segni della devastazione di una sofferenza molto forte, a partire dal suo volto. Gli elementi principali del suo pontificato credo siano riassunti nelle sue tre grandi encicliche: l’“Evangelii gaudium” (2013), che sottolinea la dimensione sociale dell’evangelizzazione e per questo parla delle periferie e dell’ascolto del prossimo; poi la “Laudato sii”, il vangelo della creazione col problema non solo ecologico, ma proprio della nostra casa comune che è anche il tema del rapporto con la scienza e con la tecnica; e da ultimo la “Fratelli tutti”, che è un po’ l’emblema di questo Papa che si è sempre prodigato per fare sì che gli ultimi divenissero primi. Vorrei anche ricordare l’impegno di Papa Francesco per il dialogo interculturale e interreligioso, nel senso che ha sempre voluto che non ci si arroccasse nella difesa delle proprie posizioni, ma si costruisse il dialogo con gli altri. Uno dei suoi simboli per eccellenza è il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, o Dichiarazione di Abu Dhabi, firmata il 4 febbraio 2019 da Papa Francesco con il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib. È importante notare il suo continuo contatto col mondo delle culture e delle religioni, delle persone più diverse sempre per cercare di stabilire, e qui il tema della pace diventa fondamentale, un dialogo, una relazione e non uno scontro, come invece la politica è tentata di fare e anche rappresenta. Papa Francesco era l’unica voce che si levava per la pace, sino al suo ultimo appello finale che aveva preparato per la benedizione Urbi et Orbi dell’altro ieri. Va ricordato questo impegno a tenere sempre in armonia anche la pluralità della stessa Chiesa: la sinodalità».

Perché Papa Francesco non si è dimesso a differenza di Papa Benedetto XVI? «Credo che sia stata fondamentale l’imitazione di Giovanni Paolo II, come figura che ha parlato anche con le parole mute, col corpo sofferente. Papa Francesco aveva insistito sull’evitare lo scarto delle persone che non sono “utili” per l’immediatezza della società. Forse questa è stata la cosa che lo ha spinto a continuare».

Pare ci fosse una lettera di dimissioni di Papa Francesco? «Non si sa con precisione. Papa Francesco aveva detto che aveva consegnato una lettera di dimissioni alla Segreteria di Stato qualora fosse stato nelle condizioni che lo prevedevano, ma avrebbe dovuto confermarla in questi giorni e non lo ha fatto. Papa Francesco aveva ormai scelto la via di Giovanni Paolo II».

Lei è stato riconfermato da Papa Francesco alla presidenza del Pontificio Consiglio per la Cultura dove era stato messo da Papa Benedetto XVI. In che modo ha interagito con il pontefice? «Papa Francesco conosceva soprattutto la cultura popolare e io dovevo anche interessarmi della cultura alta e di temi complessi che riguardavano la scienza, la tecnica e l’era digitale. Su questo aveva grande fiducia in me e mi aveva dato carta bianca come anche Benedetto XVI. Anche il Cortile dei gentili, dedicato al dialogo fra credenti e non credenti, che avevo messo in capo al Dicastero della cultura con una fondazione apposita che dirigo ancora, era nelle sue corde. A due papi così diversi devo essere riconoscente perché non è facile dare il via libera, senza esitazioni e riserve, sapendo che dovevo andare non tanto nelle periferie, ma in ambiti lontani da una visione religiosa o che ponevano dei problemi come la genetica, le neuroscienze o l’intelligenza artificiale».

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