Salviamo gli alberi ma senza eccessi

Se nasci in un paesaggio dove il verde la fa da padrone e se alzi lo sguardo è tutto una distesa di boschi, di alberi, di prati in salita, rischi, come capita a me, di non appassionarti per un albero storto in città. Per intenderci: fatico a capire e a condividere le battaglie coerenti e persino cocciute dell’agronomo Giorgio Buizza, uno che per un quadrifoglio sfiderebbe i Tre Moschettieri, non con la spada, ma con il bastone del nonno.

Va da sé che il verde in città è tema che mi sta a cuore e che decide in parte della qualità della vita dei residenti. Così come non mi costa riconoscere che, come raramente è accaduto, le commissioni consiliari siano impegnate a redigere il regolamento del verde in città. Oltre al nobile obiettivo, occorre registrare la validità del metodo, non consociativo, ma espressione di una sana dialettica pluralista. Certo, a Lecco non abbiamo bisogno di boschi verticali, anche perché, per raggiungere quelle vette temo si debba assumere una postura orizzontale, nel senso dello zerbino.

A suggerirmi l’argomento della settimana hanno provveduto alcuni episodi che si sono consumati nella torrida estate laddove lo stormir delle fronde vale più d’un condizionatore. Eppure il destino degli alberi urbani sembra contraddittorio, quasi come le “convergenze parallele” di Moro, Aldo, ovviamente, non quel Lodovico Sforza - detto il Moro - che fece piantare tanti gelsi, anche sui nostri territori, per alimentare i bachi da seta. Quelle foglie furono per secoli una risorsa preziosa per contadini, filande e commercianti anche comaschi.

Qui si parla di platani. A Lecco, una combattiva cittadina ha promosso un movimento per tutelare il più maestoso esemplare del lungolago, chiamato “platano del Garibaldi” perché, secondo la leggenda, già nel 1862 faceva ombra al passaggio dell’eroe in città. Colpisce la passione devota per un albero che merita certamente cura ma, per carità, evitiamo di farne un culto. Anche perché a me richiama quello dei morti, per i quali tra l’altro preferisco il termine cultura. A dire il vero a un tiro di schioppo, in piazza Garibaldi, zona Cantun dei ball, per anni si è celebrata la giornata dei caduti, quelli che sono inciampati sulle gibbosità provocate dalle radici dei pini che qualche amministratore illuminato fece piantare lustri fa spacciandoli per marittimi. Come dire, un vigna a Rimini. So di amici costretti al pronto soccorso e meno male che ora si è intervenuti secondo la filosofia che l’albero è un bene fungibile, anche se certi ambientalisti d’assalto (con il quale nel passato mi sono pure scontrato) sono specialisti nel far passare i fondi di bottiglia per preziosi.

E dire che il mio animo fanciullesco ricorda ancora le giornate degli alberi, quando ancora scolari venivamo accompagnati a palazzo Belgioioso per una semina della quale i frutti ci erano sconosciuti.

Per non far torto alla famiglia botanica, segnalo la vicenda del pioppo cresciuto nel letto del torrente Culigo a Chiuso. Un albero nato randagio che ora preoccupa i residenti ma che il Comune, travestito da Buizza, non vuole abbattere: al massimo potarlo. C’è da augurarsi che al prossimo temporale non si decida lui, il pioppo, a presentarci il conto.

Come conclusione, fermo restando che il verde in città deve trovare un equilibrio tra l’esistente, l’evoluzione della natura, gli insediamenti immobiliari e, soprattutto, non confondere l’ambizione di una città ecologica con i fiorellini tanto cari all’assessore Sacchi e al nostro portafoglio, a me viene in mente la strage degli alberi destinati a produrre carta e perciò stampa per gli oltre duecentomila libri pubblicati in Italia ogni anno e che non solo non aggiungono una sillaba al patrimonio letterario, buoni per il tradizionale pacchetto natalizio e per tenere in piedi la moltiplicazione dei premi di casa nostra, spacciati per Nobel in sedicesimo.

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