Bennato torna in città: «Cari lecchesi, vi aspetta una serata di rock&blues»

Dal debutto al Rigamonti-Ceppi negli anni ’70 al ritorno sul palco della “Piccola” l’11 luglio, il cantautore si racconta e spiega che cosa lo porta a salire sul palco dopo cinquant’anni di carriera

Lecco

Da giovane cantautore a stella della musica italiana. Sono passati quasi cinquant’anni dalla prima esibizione di Edoardo Bennato a Lecco. Ai tempi, era la metà degli anni settanta, il cantautore napoletano suonò al Rigamonti-Ceppi, il prossimo 11 luglio alle 21 si esibirà alla “Piccola” (biglietti 25/35/45 euro, posti ancora disponibili). Ripercorriamo insieme a lui la sua lunga carriera.

Come nasce la sua passione per la musica?

«In un’afosa estate a Bagnoli, quartiere operaio di Napoli, mia madre per tenerci impegnati durante le vacanze scolastiche estive si mise alla ricerca di un insegnante di lingue per noi tre fratelli, in base alla sacrosanta teoria che vuole che “l’ozio sia il padre dei vizi”. Aveva incaricato una signora nel palazzo dove abitavamo di “spargere voce”. Dopo una settimana la signora disse che un maestro di lingue non lo aveva trovato, ma uno di musica sì... mi trovai una chitarra tra le mani, mio fratello Eugenio una fisarmonica e Giorgio il banjo e le percussioni; nacque così il “Trio Bennato” e la mia passione per la musica».

Ha esordito minorenne col “Trio”, cosa ricorda di quel periodo?

«Eravamo poco più che bambini, facevamo tenerezza con quegli strumenti più grandi di noi tra le mani. Partecipavamo suonando a feste, eventi musicali, gare canore e persino a una trasmissione Rai per la tv dei ragazzi. Una sera ci esibimmo al circolo della Marina a Napoli, si avvicinò un signore che ci disse “Bravi siete bravi, se venite promossi a scuola vi porto a suonare in crociera nelle Americhe”. Scoprimmo che si trattava di un grande armatore, il signor Grimaldi. Fummo promossi e, con mio padre e mia madre, salpammo per le Americhe. Arrivati a Caracas fummo invitati a suonare per Canal7, un’emittente locale. Durante e dopo la nostra esibizione i centralini telefonici si intasarono dal numero di telefonate che arrivarono, tutte persone che volevano risentire i “niños italiani” cantare. Ci offrirono un contratto per farci restare... “Ma quale contratto - disse mia madre - questi devono tornare a scuola!”. Per le mamme di una volta era impensabile che la formazione di un ragazzo prescindesse dallo studio, a buon intenditor, poche parole»

Dopo le scuole superiori lasciò Napoli per Milano.

«A 18 anni andai via e mi iscrissi alla facoltà di architettura a Milano, ma non perché la facoltà di Napoli fosse meno prestigiosa tutt’altro... a Milano c’era quasi tutta l’industria discografica ed io mi ero messo in testa di voler fare musica. Iniziai a bazzicare sia le aule dell’Università che i corridoi delle case discografiche per far ascoltare le mie “canzonette”. La mia naturale irrequietezza mi portò ad istinto a spostarmi sempre più verso nord: Amsterdam, Copenhagen, Berlino... arrivai a Londra, la città che nell’immaginario collettivo rappresentava, e rappresenta ancora, il fulcro della musica rock».

Quanto è stata importante Londra per la sua carriera?

«Era il tempo della British invasion, ragazzi inglesi figli della working class che, partendo dal blues americano, avevano conquistato il mondo con la loro musica. Fu a Londra che, vedendo suonare in strada i buskers, mi venne l’idea di costruirmi un tamburello a pedale: mi fu molto utile, e lo è tutt’ora, per suonare “one man band”. Londra fu importantissima per la mia formazione musicale».

Nel 1980 riempì San Siro, il primo a farlo. Che sensazione fu?

«Il concerto di San Siro fu l’ultima tappa di un tour dove suonammo in quindici stadi italiani, nel luglio del 1980. Avevo già suonato nel ’78 in alcuni stadi, come l’allora San Paolo di Napoli, oggi stadio Maradona. Erano gli anni di piombo e portare centinaia di migliaia di persone all’interno di uno stadio poteva costituire un rischio non da poco in termini di possibili attentati, infatti la strage alla stazione di Bologna accadde due settimane dopo il concerto di San Siro; decisi che dovevamo vincere la paura e la musica doveva essere più forte della strategia della tensione e per fortuna ebbi ragione».

Da “È goal” a “Chi sogna, segna”, passando per le indimenticabili “Notti magiche”… che rapporto ha con il calcio?

«Ho sempre giocato a calcio, da bambino ho anche vinto qualche coppa come capocannoniere, è una passione che nasce dal cuore. La mia squadra, il Napoli, mi ha dato tante gioie ma altrettanti dolori nel corso della mia vita. Nello sport la lealtà è fondamentale, bisogna stringere la mano all’avversario che ti supera; nel calcio è più difficile, se perde il Napoli “mi incazzo”, lì sono più tifoso che sportivo! Adesso sto preparando una sigla per l’America’s cup Che si terrà proprio a Napoli».

Una delle sue hit è “Viva la mamma”. Quanto è stata importante mamma Adele nella sua vita e nella sua carriera?

«Mia madre è stata fondamentale. Fu lei che fece nascere in noi tre fratelli la passione per la musica. Scrivendo “Viva la mamma” ho voluto rendere omaggio a quelle donne che, nell’ultimo dopoguerra, riuscirono a rimettere in piedi questa nazione. Con tanti sacrifici e tanto “buonsenso femminile” sono riuscite a stemperare il raziocinio spietato dei maschi. Sogno un mondo in cui l’universo femminile prenda sempre più la guida nelle decisioni di questo pianeta».

Nel 2006 ha scritto un musical dedicato a Peter Pan. Cosa rappresenta per lei questo personaggio?

«Peter Pan rappresenta l’idea di poter volare, di inseguire il sogno di essere liberi, di poter dire sempre quello che si pensa. Il sogno forse “anarchico” di inseguire l’utopia dell’isola che non c’è; al punto in cui è arrivata l’umanità, bisogna che quest’isola la troviamo una volta e per tutte se vogliamo sopravvivere».

Chi è Edoardo Bennato oggi?

“Per la strada c’è uno/si è scoperto chi è/ non l’aiuta nessuno/ ma s’aiuta da se”; sono uno che continua imperterrito a fare musica andando costantemente in direzione ostinata e contraria, come sosteneva il mio amico Fabrizio De André».

Con cinquant’anni di carriera alle spalle, cosa la spinge a salire ancora sul palco?

«La musica è uno scambio di emozioni, di buone vibrazioni tra palco e pubblico, io attingo energia e spero di restituirla a chi viene a sentirmi».

È mai stato a Lecco o nelle nostre zone?

«Ho vissuto e vivo ancora a Milano per cui conosco bene tutte le aree. A Lecco ci ho suonato anche alla metà degli anni settanta, un concerto allo stadio, fu molto bello. E poi la Lecco di Manzoniana memoria...»

Cosa devono aspettarsi i fan che la verranno a sentirla il prossimo 11 luglio?

«Un concerto ad alto contenuto rock&blues»

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