Comunicazione sanitaria: svolta con empatia e Ai

La materia sta evolvendo verso un “ecosistema di fiducia e partecipazione”, in cui l’elemento relazionale è decisivo. Stefania Romenti (IULM/Cecoms) evidenzia l’importanza di investire in training sulle soft skill degli operatori

«Nelle strutture sanitarie c’è sempre più richiesta di professionalizzazione e di tecniche specialistiche di comunicazione all’insegna di empatia e narrazione di esperienze, con l’obiettivo di stabilire fiducia. E sta cambiando molto anche la formazione per una corretta comunicazione della prevenzione». Lo afferma Stefania Romenti, direttrice scientifica del Cecoms-Centro per la comunicazione strategica, professoressa ordinaria di Comunicazione strategica e prorettrice alla didattica in Università Iulm che di recente ha presentato i risultati di una ricerca del Cecoms sulle direzioni future della comunicazione medicale, secondo cui «la comunicazione della salute sta diventando un ecosistema di fiducia e partecipazione, dove l’intelligenza artificiale può contribuire a rendere la cura più empatica, spiegabile e condivisa».

Professoressa, quali sono le ultime frontiere di formazione sulla comunicazione nelle strutture sanitarie?

Dalla ricerca emerge certamente una sempre maggior attenzione all’elemento legato all’empatia, alla comunicazione per la salute e anche a una comunicazione medicale sempre più relazionale, orientata a costruire una fiducia. La fiducia in questo momento è la vera moneta di scambio con il pubblico e con i pazienti. Emerge inoltre che anche a livello internazionale le strutture sanitarie più avanzate investono moltissimo in corsi per lavorare sul saper gestire le emozioni da parte degli operatori sanitari, con molta comunicazione interna. Si fa dunque molta formazione sul linguaggio empatico, sulla cura narrativa con una quantità di corsi decisamente in crescita.

Quale peso hanno le nuove tecnologie in tale tipo di didattica specialistica?

E’ interessante l’intersezione fra le tematiche legate alla narrazione, all’empatia, e tecnologie digitali. All’estero abbiamo visto un numero crescente di strutture sanitarie che investono in training di digital empathy: una triangolazione fra l’utilizzo di intelligenza artificiale che risponde con calore, con personalizzazione, che cerca di costruire un’interazione che tiene presente anche il lato umano. Emerge dalla ricerca in modo molto interessante anche tutto il tema legato all’intelligenza artificiale, con il lato umano ed empatico delle tecnologie. In particolare, ci ha molto colpiti il tema della cosiddetta “spiegabilità”: i pazienti vogliono sapere perché l’algoritmo restituisce un certo tipo di risultato, vogliono inoltre vedere una forte integrazione fra medico e intelligenza artificiale. Da parte delle generazioni più giovani c’è un grande orientamento verso l’uso del digitale per cercare informazioni anche sanitarie, ma c’è molto bisogno di educazione in tal senso.

Come vede quel fronte social su cui si condivide di tutto, situazioni di salute incluse?

Mi ha molto colpita fra i risultati della nostra ricerca il fenomeno della condivisione comunitaria di determinate malattie, il rendersi conto che soprattutto i giovani hanno bisogno di condividere fragilità, problemi di salute e anche le epidemie invisibili, quelle psicosociali. La condivisione, soprattutto nelle comunità digitali, è parte del percorso verso la salute e il percorso di guarigione.

E anche questo aspetto può essere governato da un’apposita strategia di comunicazione?

Anche l’aspetto del valorizzare tali comunità, dell’entrare in relazione con ambienti digitali come spazi di supporto e addirittura di cura è emerso con molta forza dalla ricerca.

Come valuta i risultati nelle applicazioni fra le realtà sanitarie italiane?

Parliamo di una realtà molto variegata e frammentata. In tal senso emerge che le strutture sanitarie più avanzate e che investono in innovazione stanno andando a un passo diverso. Dalla nostra ricerca emergono dati interessanti sui leader sanitari, quei leader che, come in altri tipi di impresa, prospettano visione e valori: lavorano sul senso di appartenenza interno, sulla legittimazione, oltre che sull’esterno. Dai nostri ultimi dati osserviamo che la reputazione non si costruisce più soltanto mostrando quanto si è bravi in ciò che si offre come azienda sanitaria bensì si costruisce sempre più sul cosiddetto ’caracter’, sulla personalità in termini di valore del dna della struttura.

Quali sono invece le procedure, le modalità, più efficaci per la formazione e l’aggiornamento dei lavoratori di strutture socio sanitarie?

C’è un tema di metodo didattico: quando si va su tematiche che riguardano soft skill, empatia, cura narrativa, coltivazione delle relazioni, sul favorire il lato umano delle situazioni serve un training molto basato su simulazioni e laboratori più che su una didattica tradizionale.

Academy interne e consulenti esterni, come accade per la formazione continua delle imprese manifatturiere, sono uno schema frequente anche negli ospedali?

Più che di academy e consulenti sottolineo che ciò che serve sono professionisti in grado di fare una formazione molto esperienziale e di simulazione.

L’Università Iulm in tal senso collabora con le aziende sanitarie?

Sì. Intanto vediamo che i nostri studenti non vengono solo assunti da aziende private business oriented ma sempre più anche da strutture socio sanitarie, a partire dagli stage a seguito dei quali spesso i nostri studenti vengono asunti. Facciamo inoltre attività di formazione per quelle strutture che si stanno attrezzando in modo professionale e sempre più specialistico, che hanno al loro interno degli uffici stampa che necessitano di training.

C’è un’attenzione alla formazione sulla comunicazione relativa alle crisi?

Fra gli investimenti delle strutture sanitarie più avanzate c’è certamente l’organizzazione di personale addetto alla gestione delle crisi, che ha bisogno di training specializzato, mirato e periodico, con lo sviluppo di veri manuali di crisi. Sono aziende avanzate che hanno necessità di sviluppare la comunicazione non solo esterna ma anche interna, dato che molte sono le figure professionali e i collaboratori che ruotano, fra entrate e uscite con diversi tipi di contratti e relazioni con le strutture.

Serve una formazione specifica anche per trasmettere il valore della prevenzione?

In primis, dalla nostra ricerca emerge il modo in cui cambiano i linguaggi: abbiamo cercato di far capire come sta cambiando il linguaggio della salute, il linguaggio medicale, e come stanno cambiando le narrative di questo linguaggio. La prevenzione inizia ad essere raccontata in modo diverso rispetto al passato: una prevenzione che non è più prescrizione di determinati esami, analisi, abitudini quotidiane e non colpevolizza nel caso non si seguano le indicazioni. E’ una prevenzione totalmente orientata al benessere corpo-mente e soprattutto è una prevenzione relazionale. La salute non si rapporta più sul fatto che una persona curi il proprio corpo ma anche col fatto che viva in un contesto di relazioni sociali forti e sane.

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