“Insubria”, la sentenza
«Quelle “mangiate”
segno di appartenenza»

Depositate le motivazioni, 882 pagine dedicate alle prove raccolte dalla Dda
«La partecipazione configura di per sè il reato»

«La ricostruzione e valutazione delle “mangiate” confutano le argomentazioni difensive per le quali la “mangiate” sarebbero solo incontri conviviali». Lo scrive il giudice dell’udienza del tribunale di Milano Fabio Antezza nelle motivazioni della sentenza con la quale, il 26 maggio, ha condannato tutti gli imputati dell’inchiesta Insubria contro le ramificazioni della ’ndrangheta nel Lecchese e nel Comasco che avevano scelto il rito abbreviato.

Trentacinque condanne, anche se pene dimezzate rispetto alle richieste dei pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Milano Paolo Storari e Francesca Celle: 162 anni di carcere contro quasi 400. Quindici degli imputati risiedono nel Lecchese: tutti accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso in quanto ritenuti esponenti del “locale” di ’ndrangheta di Calolziocorte.

Nelle 882 pagine depositate nei giorni scorsi nella cancelleria del tribunale di Milano, Antezza ripercorre tutti i fatti contestati agli imputati, soffermandosi - per quanto riguarda il “locale” di Calolziocorte, proprio sulle “mangiate” documentate dal Ros dei carabinieri di Milano, che per il giudice non sarebbero affatto semplici riunioni conviviali tra conoscenti ma configurerebbero al di là di ogni ragionevole dubbio il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso per il quale sono “fioccate” le condanne.

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