«A Sondalo pochi pazienti ma impegnativi. Poi ci sono i sintomi long Covid»

Tre anni dopo lo scoppio della pandemia parla Chiara Rebucci, responsabile del reparto Infettivi del Morelli.

Incredibile, ma vero. Sono soltanto quattro i pazienti Covid ricoverati nel reparto infettivi del Morelli di Sondalo, diretto da Chiara Rebucci, segno che il coronavirus è in pieno arretramento.

A tre anni da quel fatidico 23 febbraio 2020, in cui è partita ufficialmente anche da noi l’emergenza, al Centro Covid Morelli di Sondalo si comincia a tirare il fiato. Non da molto, perché per tutto l’autunno dello scorso anno si è lavorato tanto, e anche durante le festività natalizie fino alla seconda metà di gennaio, poi gli accessi hanno cominciato a diminuire. Si è scesi sotto le 20 unità di ricoverati, fino a 15-12 e ora da un paio di settimane si veleggia tranquilli.

Siete più sereni, ora, quindi, dottoressa Rebucci o sempre guardinghi?

Diciamo che non ci sono indicazioni di ritorni di Covid né da noi, né nel resto della regione. Però ricordo anche che dallo scorso anno qui al centro Covid Morelli ricoveriamo solo i pazienti sintomatici per Covid, non con Covid. In pratica, il paziente che arriva in ospedale per un motivo diverso dal Covid, magari per una frattura o per sottoporsi ad un intervento chirurgico, e viene riscontrato positivo, se non ha sintomi o se ha sintomi lievi non arriva più da noi, ma viene ricoverato nel reparto che lo prende in carico per il suo problema principale. Questo ha sgonfiato un poco il nostro o i nostri reparti, a seconda dei piani dedicati, così da poterci dedicare ancor più compiutamente a quei casi difficili, insidiosi, che oggi si presentano sempre di più.

Perché?

Perché l’attuale “paziente tipo” Covid è sempre più complesso e sempre più compromesso. Spesso non ha ricevuto, neppure a casa, quelle cure base che avrebbero potuto contenere la progressione della malattia.

I cosiddetti pazienti fragili, in una parola, ma chi sono alla fine i fragili?

Non dobbiamo pensare che il fragile sia necessariamente un nonnino di 100 anni, già pluricompromesso di suo. I pazienti fragili possono essere benissimo molto più giovani, purtroppo. Penso a un trentenne trapiantato con leucemia. Noi dobbiamo lottare per questi pazienti fragili, tutti, dobbiamo proteggerli. Non lasciamoli indietro. Perché sono nonni, padri, madri, figli, fratelli, di qualcuno, e sono persone per le quali il Covid rappresenta ancora una grave insidia. Riguardo a questi pazienti, in particolare, non appena si rileva una sintomatologia Covid occorre subito fare il test e intervenire al domicilio con farmaci antivirali, che prescrive il medico di medicina generale, per valutare poi la necessità di ricorrere alle intramuscolo a base di anticorpi monoclonali che somministriamo qui in reparto, in trattamento ambulatoriale. E ne facciamo tante. In questo modo si riduce al minimo il rischio di ricovero ospedaliero per questi pazienti. E li si salva.

Il suo ha i connotati di un forte appello alla tutela di questa fascia più debole della popolazione.

Assolutamente sì. Oggi siamo tornati tutti alla normalità e ne siamo felici, ci mancherebbe. Però il virus non se n’è andato e forse non se ne andrà mai. Tutti noi speriamo che non si manifesti sotto forma di varianti che possano aggirare l’azione protettrice dei vaccini, che attualmente restano efficaci, così come efficaci sono gli antivirali e i monoclonali. Ma tutto questo non ci deve fare dimenticare dei più deboli, non dobbiamo fare finta che non esistano. Il punto ora è curare chi ha senso curare con le armi che si hanno a disposizione, e i primi sono i fragili. Non dimentichiamo poi quei fastidi, terribili, che genera il long Covid in tante persone, per curare il quale, invece, non abbiamo nulla.

Ancora oggi, a tre anni dall’emergenza, gli effetti del long Covid sono presenti?

Certo che sì. É un problema ancora poco conosciuto e poco considerato, ma esiste. Ci sono pazienti in sofferenza ad un anno e più dall’infezione da Covid. Ci parlano di grave astenia, di disturbi neurologici, di disturbi respiratori, di tosse continua e fastidiosa. Insomma, quadri molto poco edificanti per i quali si può fare poco. L’unica cosa è cercare di non prendere il Covid, per evitarli.

Lei l’ha preso, il Covid?

No, non l’ho ancora fatto. Almeno non in forma sintomatica, così da potermene accorgere. Come è capitato alla mia collega infettivologa Marta Benedetti, con me da sempre. Preciso però che qui in reparto abbiamo un’attenzione maniacale, una cosa incredibile, forse eccessiva, ma abbiamo preferito eccedere e tutelare noi e tutti i pazienti.

Oggi i parenti dei pazienti posso entrare in reparto?

Sì, già dallo scorso anno, ma ovviamente solo in casi di criticità del loro congiunto, in fase terminale o in situazioni particolari. Devono essere bardati, esattamente come noi, ed è pesante anche per loro, soprattutto se si tratta di trattenersi per alcune ore, perché è una vestizione impegnativa.

Dottoressa è già arrivata da noi la variante Kraken?

Non lo sappiamo, perché ormai la tipizzazione del virus si fa solo in casi specifici. Ad esempio in presenza di un’infezione che non se ne vuole andare, o quando il paziente necessità di cure intensive. E si fa su tamponi molecolari, non su quelli rapidi che utilizziamo di norma.

Nella speranza che non arrivi proprio oggi, le chiedo, a distanza di tre anni, in questa fase di relativa tranquillità dal punto di vista dell’attività di reparto e dei contagi in generale, cosa ha rappresentato per lei il Covid?

Dal punto di vista professionale è stato qualcosa di sconvolgente all’inizio, perché si è trattato di affrontare qualcosa che non conoscevamo, di studiare, di imparare, e tuttora lo stiamo facendo. Sappiamo che il Covid colpisce più organi, non solo il polmone, e che i pazienti Covid sono complessi e imprevedibili. Molto impegnativi. Per me, quindi, si è trattato di un momento di crescita professionale enorme, mentre dal punto di vista umano mi sembra di essere una reduce di guerra. Una guerra non di tre, ma di trent’anni... Non si possono dimenticare i morti delle prime ondate, il fatto di non poterli fare vedere ai parenti...

Alla società, invece, secondo lei, il Covid ha insegnato qualcosa?

Non so, francamente. Ci sono state reazioni estreme, in un senso o nell’altro. All’inizio grande slancio solidale, poi tutti hanno cominciato a pensare un po’ a se stessi, comprensibilmente stanchi del Covid. In tanti, forse, alla fine è uscito un certo egoismo, in tanti altri no.

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