Ormai è diventata un’espressione del linguaggio comune. Una situazione “da Black Mirror” indica una circostanza dai tratti distopici, dove la relazione gerarchica tra uomo e tecnologia appare ribaltata, con la seconda che prende il sopravvento e mette a rischio i caratteri essenziali dell’essere umano e i suoi valori.
Una serie di fantascienza studiata nelle università: «Rende godibile vedere la nostra stessa catastrofe»
“Black Mirror”, la serie antologica ideata da Charlie Brooker, è tornata nelle scorse settimane in vetta alle classifiche di Netflix, con una settima stagione che ancora una volta si dimostra straordinariamente al passo – se non in anticipo – con il dibattito contemporaneo.
Dal 2011 il serial porta in scena un futuro prossimo distopico e inquietante, per affrontare tematiche relative all’impatto della tecnologia sulla nostra società, come il controllo, la privacy, la vita digitale e la manipolazione dell’opinione pubblica per mezzo dei media.
La nuova stagione si caratterizza per i toni ancora più crudi e per il desiderio di portare sulla scena paure ancora più attuali. Nei sei episodi assistiamo così, ad esempio, alla trasformazione di una cura per malattie terminali in un servizio premium, a terrificanti conseguenze dovute all’utilizzo dell’IA nel cinema, allo sconfinamento di un videogioco nella realtà con esiti apocalittici.
Ma, al di là dell’innegabile valore della serie come prodotto di intrattenimento – o forse proprio in virtù di questo – quali chiavi di lettura offre “Black Mirror” per interpretare la nostra epoca?
Sociosemiologa Claudia Attimonelli
è sociosemiologa. Insegna “Immaginario, media
e cultura digitale”
e “Semiologia del Cinema
e degli Audiovisivi” all’Università di Bari Sociologo Vincenzo Susca
è professore associato di Sociologia dell’immaginario all’Università Paul-Valéry di Montpellier. Insieme hanno pubblicato, nel 2020, il saggio “Un oscuro riflettere. Black Mirror
e l’aurora digitale”
Ne parliamo con la professoressa Claudia Attimonelli, sociosemiologa dell’Università Aldo Moro di Bari e il professor Vincenzo Susca, sociologo presso l’Università Paul Valery di Montpellier. Insieme hanno scritto il saggio “Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale” (Mimesis, 2020) dove indagano, alla luce dei propri ambiti di insegnamento, la straordinaria importanza della serie per riflettere su alcune questioni centrali del nostro tempo.
Nel saggio, “Black Mirror” è definito «il testo per antonomasia di antropologia culturale, mediologia e sociologia dell’immaginario» per approfondire alcune questioni relative al rapporto tra i media e la società contemporanea. Perché è così importante?
A: Sin dalla prima puntata, nel 2011, ci siamo resi conto che “Black Mirror” riusciva, con il linguaggio della serialità televisiva, ad affrontare alcune questioni centrali delle nostre discipline.
In primo luogo, la serie introduce una modalità di parlare del futuro che non è così spostata in avanti come in un classico film di fantascienza: “Black Mirror” ci ha messi di fronte a qualcosa che stava già accadendo sulla nostra pelle, esplorando proprio quel quotidiano che costituisce uno dei campi da cui attingiamo per il nostro lavoro.
In secondo luogo, il serial offre la possibilità di riflettere anche su interessanti meccanismi di spettatorialità: guardando “Black Mirror” gli spettatori si sono trovati - come con uno specchio - di fronte qualcosa che già iniziavano a temere nelle proprie vite, innescando dinamiche estremamente interessanti da studiare.
Qual è lo sguardo con cui il serial mette in scena questi processi? Si può parlare di una visione morale o politica?
S: “Black Mirror” è un testo interessante sia in quanto medium sia in quanto messaggio, perché svela molti aspetti distopici della nostra quotidianità e al tempo stesso il nostro sguardo morale verso di essi: non solo è utile per descrivere cosa succede ma anche per vedere come generalmente lo interpretiamo. Brooker emette sicuramente un giudizio morale e spesso moralistico sulla natura della relazione contemporanea tra umani e tecnologie. Se c’è uno sguardo politico, paradossalmente si tratta uno sguardo conservatore e nostalgico, che suggerisce di tornare a un’epoca d’oro che coincide con l’umanesimo. “Black Mirror” sembra abbracciare proprio quell’idea “disgiuntiva” dell’umanesimo, secondo la quale l’uomo diventa maestro del mondo e possessore della natura solo separandosi da essa, dagli oggetti, dalla tecnica.
A: Il passaggio dalle prime stagioni a quelle prodotte da Netflix ha visto un indebolimento dell’aspetto politico della serie. Prima dell’uscita su Netflix, ad esempio, c’erano state operazioni di promozione volte a mostrare proprio quanto “Black Mirror” fosse tra noi. Penso alla terrificante campagna realizzata in Turchia, con le persone che di notte hanno ricevuto un messaggio con la minaccia di essere osservati. Chiaramente si trattava uno statement politico che diceva: “sappiate di poter essere controllati dal sistema”.
È una fantascienza che sembra guardare quasi più al passato che al futuro. Come mai?
S: Come hanno messo in luce pensatori come Mark Fisher o Fredric Jameson, il problema è che abbiamo esaurito tutti gli immaginari sul futuro. Quando non ci sono più futuri immaginabili, l’unico futuro che possiamo ancora accarezzare risiede in qualche forma di passato.
Da questo punto di vista, la sesta stagione è probabilmente la più nostalgica, la più archeologica. Invece nella nuova stagione trovo un altro tentativo di rilanciarsi sul futuro, alzando l’asticella del trauma, dello shock, della provocazione.
A: Sicuramente emerge un sentimento di nostalgia verso un momento storico in cui internet era visto come uno spazio di libertà e di emancipazione.
I futuri novecenteschi che abbiamo immaginato, popolati da cyborg e navicelle spaziali, non sono mai avvenuti. Invece, ci siamo accorti che il futuro non era così sorprendente come raccontavano i film di fantascienza. I personaggi di “Black Mirror” si trovano ingabbiati in qualcosa che ci sembra banale: i cyborg non sono più i replicanti di “Blade Runner” ma siamo noi, la cui componente organica risulta completamente assorbita dalle tecnologie di cui facciamo uso nella nostra nuova quotidianità.
Come è cambiata la serie negli anni?
S: Con il passaggio a Netflix, dalla terza stagione, abbiamo assistito ad un cambio di registro, segnato da una maggiore accessibilità, spettacolarizzazione e a volte anche leggerezza. Inoltre, nelle ultime stagioni ho l’impressione che Brooker voglia inseguire maggiormente la realtà quotidiana. Nel primo episodio della nuova stagione abbiamo avuto tutti l’impressione che quello che accade alla coppia sia quello che ci accade ogni volta che acquistiamo un contenuto premium su Spotify o su Netflix stesso.
A: Secondo me il vero cambiamento riguarda la fedeltà al paradigma della fantascienza, quel patto che salva la possibilità che si costruisca un universo in cui tutte le regole, per quanto assurde, possano funzionare. Fino alla stagione 5 c’è una coerenza fantascientifica tale per cui tutto è sempre giustificabile, dalla stagione 6 l’elemento del gaming ha superato l’aspetto fantascientifico. Questo minor grado di coerenza diminuisce l’aspetto di paura: dopo l’episodio di “Shut up and dance” (S3E3) si venne a sapere che molte persone avevano iniziato a coprire la telecamera dei propri pc, per il timore di subire la stessa sorte del protagonista. Quando, invece, questo patto di coerenza si rompe, viene meno quella condizione stringente di “de te fabula narratur”.
“Black Mirror” porta in scena i lati peggiori dell’essere umano e della nostra società. Perché ci piace?
S: Il piacere che si prova nel vedere “Black Mirror” è quello di osservare la nostra stessa catastrofe con una sorta di godimento. Non si tratta più di immaginare la fantascienza di un mondo lontano ma di guardare la nostra stessa fine: la fine dell’umanesimo, dell’Occidente, della democrazia. È un piacere simile a quello descritto da Baudrillard relativamente agli attentati: l’Occidente stanco, saturo e obsoleto, in fondo “desidera” questi eventi perché contribuiscono a distruggere ciò che abbiamo costruito e nel quale non crediamo più. C’è un’euforia nichilista nel vedere “Black Mirror” in quanto catastrofe di noi stessi, che porta con sé anche una forma di alleggerimento. Ti dimostra che non c’è più niente da fare.
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